2 Settembre 2021
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Il “canale di sangue” accanto all’aeroporto di Kabul dove in migliaia hanno atteso invano di fuggire dal paese (Foto Ansa/Sir)
L’epilogo del ventennale impegno militare degli Stati uniti e della Nato in Afghanistan, tragico per i civili anche dopo gli attentati all’aeroporto di Kabul dove in migliaia inseguono da giorni una speranza di fuga, ha però anche i contorni di una disfatta annunciata. I meno distratti lo avevano previsto, già lo scorso anno lo storico Gastone Breccia aveva pubblicato il saggio Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan (Il Mulino). Professore, in queste settimane molti hanno scoperto o riscoperto il suo saggio “profetico”. Leggendo le sue parole si capisce come l’esito del conflitto afgano così come lo stiamo vedendo fosse inevitabile: ma c’è qualcosa che ha sorpreso anche lei nella capitolazione così repentina di ciò che rimaneva del Paese nelle mani dei Talebani? «Due cose mi hanno sorpreso: la totale dissoluzione delle forze di sicurezza afgane (ANSF), esercito e polizia: pensavo che almeno le unità scelte, i “commandos” delle forze speciali, riuscissero a ritardare l’avanzata dei talebani. Non sarebbe cambiato molto, ma avrebbe consentito di condurre in porto l’evacuazione in maniera più ordinata. Probabilmente lo pensavano anche gli americani: l’altra cosa che mi ha sorpreso, infatti, sono stati gli errori fatti nella comunicazione, nelle settimane e nei giorni precedenti la caduta di Kabul. Biden e il Segretario di Stato Blinken hanno fatto una figura penosa davanti al mondo. Per quanto fossero (e siano tuttora) convinti di aver fatto la cosa giusta andandosene dall’Afghanistan adesso, a nessuno fa piacere passare per stupido in pubblico, e il danno fatto all’immagine degli USA non va comunque a vantaggio dell’amministrazione di Washington». Torniamo al 2001, «promuovere al-Qa’ida al rango di avversario degno di un conflitto tra potenze»: è stato questo il peccato originale degli Sati Uniti dopo l’11 settembre? «Sì. Al-Qa’ida, come ho scritto, andava trattata come un’organizzazione criminale; con pazienza bisognava concludere le indagini sugli attentati, affidare a una corte internazionale l’emanazione di una condanna esemplare, e poi dare una caccia spietata ai suoi membri. L’effetto morale, di fronte al mondo, sarebbe stato certamente positivo. Contemporaneamente si poteva punire il regime del mullah Omar in molti modi, e persino indurlo a collaborare, dopo un certo lasso di tempo, alla “caccia” ad al-Qa’ida, una volta che un tribunale super partes ne avesse accertato la colpevolezza. Nel settembre del 2001 da Kabul arrivarono, in extremis, aperture in questo senso, ma vennero ignorate. Fare la guerra al terrore (o al terrorismo), si è rivelato un errore strategico tremendo. Era quello che desiderava Osama bin Laden: trascinare gli USA in una “guerra infinita”, costosissima, che gli avrebbe sfiancati erodendo fatalmente il consenso politico interno, e facendogli consumare una quantità di blood & treasure a un ritmo che nemmeno una grande potenza può sostenere a lungo». In diverse parti del suo testo dedicate all’arte militare sembra di leggere come in questo conflitto siano venute meno non soltanto alcune regole base dal punto di vista tattico-strategico ma anche sotto l’aspetto “morale” anche della guerra. È così? «Fare la guerra significa combattere per piegare la volontà del nemico; dunque uccidere il nemico, accettando i rischi che questo comporta. Non dico sia una cosa bella, ma ha una sua moralità. Se si pretende di fare una guerra a zero casualties, “perdite zero”, utilizzando una schiacciante superiorità tecnologica e milizie “alleate” sul campo per i “lavori sporchi”, inevitabilmente si perde la faccia di fronte a chi subisce direttamente, sulla propria pelle, gli effetti negativi del conflitto. Quando gli americani bombardavano dal cielo un villaggio da cui erano partiti dei colpi di fucile, causando vittime civili, forse evitavano di perdere degli uomini, ma di certo facevano un passo verso la sconfitta, alienandosi la popolazione civile. Ovviamente è giusto cercare di preservare i propri uomini e donne impiegati sul terreno: ma questo non può essere il principio-guida delle operazioni. Altrimenti le “guerre tra la popolazione”, come sono stati giustamente definiti i conflitti “asimmetrici” della nostra epoca, è meglio non iniziarle nemmeno». Come giudica le scelte degli Stati Uniti – e le azioni intraprese dai presidenti che si sono succeduti in questi anni – e quelle della Nato? Questa è la fine dell’alleanza atlantica per come fu concepita? Quella in Afghanistan è anche la sconfitta di una visione di Occidente come modello “universale” di sviluppo e prosperità? «Gli Stati Uniti hanno iniziato una guerra, come dicevo, con presupposti strategici sbagliati (hanno fatto quello che voleva il loro nemico numero uno, ovvero Osama bin Laden: e questo è ovviamente un errore); l’hanno portata avanti, dopo il 2003 (quando iniziò la campagna in Iraq, per loro molto più importante) quasi controvoglia, destinando troppe poche risorse all’Afghanistan; Obama, nel giugno 2011, mandò un segnale disastroso, annunciando che dopo il 2014 la missione statunitense si sarebbe trasformata da combat a support, e che gli afgani da lì in avanti avrebbero dovuto iniziare a cavarsela da soli… Da allora gli insurgents – non solo talebani – hanno avuto la certezza della vittoria, consapevoli del fatto che sarebbe bastato loro tener duro fino al capodanno del 2015, e che da lì in poi sarebbe stata solo questione di tempo prima di aver ragione dell’esercito afgano. Trump e Biden non hanno fatto altro che continuare su una strada già tracciata sulla base delle aspettative dell’elettorato statunitense, stanco di una guerra costosissima di cui non comprendeva più (a ragione) gli scopi e non vedeva la fine. La NATO si è comportata da ancella degli USA, come al solito, fornendo un appoggio limitato per ciò che riguarda le missioni di combattimento (a parte i britannici), costretta ad allinearsi alla decisione americana di smobilitare. In quanto al modello “universale” di sviluppo: credo che la crisi sia evidente a prescindere dalla “missione fallita” in Afghanistan. Le disuguaglianze sociali aumentano invece di diminuire, il welfare è in crisi ovunque, la crisi climatica mette in pericolo l’intero pianeta, i giovani stentano a trovare lavoro… Non c’è da stare allegri. L’Occidente deve ripensare profondamente i propri valori, ad iniziare dal rapporto con l’ambiente, se vuole sopravvivere e (continuare ad) essere un modello». Che futuro ha l’Afghanistan? c’è la speranza di vedere una “resistenza” organizzata ai Talebani? «Me ne sto occupando in questi giorni, attraverso contatti con amici afgani. Il vicepresidente Amrullah Saleh, tagico, è fuggito nella valle del Panjshir, controllata dal figlio di Ahmad Shah Massoud e dai suoi combattenti, e sta organizzando la resistenza. So che centinaia di militari afgani si sono ritirati nella valle con armi e mezzi per continuare a combattere; anche un buon numero di piloti, in extremis, sono riusciti a portare nel Panjshir i loro elicotteri. La “resistenza” sta già ricevendo aiuti dal Tagikistan (e dall’India attraverso il Tagikistan), per ora solo dal cielo. Sarebbe essenziale riuscire ad aprire una via di comunicazione terrestre, ma per il momento i talebani controllano buona parte dell’area tra il Panjshir e il confine. Le prossime settimane saranno decisive». Che ruolo hanno giocato e giocheranno Pakistan, Cina e Russia nella regione? Cosa può fare l’Unione europea? «Il Pakistan ha sempre appoggiato i talebani, fin dalla loro “nascita” nel 1994, e sembra il primo vincitore esterno. In realtà ha le proprie preoccupazioni, perché i talebani pakistani (TTP) sono un elemento di forte instabilità interna per il governo di Islamabad, e adesso il successo dei loro fratelli afgani potrebbe renderli molto pericolosi. In ogni caso cercheranno di esercitare un controllo diretto sul nuovo governo talebano di Kabul. La Cina sta già preparandosi a sfruttare economicamente la vittoria talebana: non ha alcuna remora a trattare con loro, nessun interesse al rispetto dei diritti umani o alla “parità di genere”, e quindi può agire senza difficoltà, offrendo aiuti economici, tecnologia, protezione internazionale (qualche veto nel consiglio di sicurezza…) in cambio di contratti vantaggiosi, e della promessa di non appoggiare le spinte autonomistiche delle minoranze islamiche nel suo territorio. Simile il ruolo della Russia: anche se in questo caso, per ovvi motivi di geopolitica, le preoccupazioni sugli effetti della vittoria talebana nelle repubbliche ex-sovietiche a maggioranza di popolazione musulmana sono maggiori. L’Unione Europea… l’Unione Europea chi?» Dedica un capitolo del suo saggio all’Italia. Cosa direbbe alla luce dei fatti di questi giorni ai familiari dei nostri caduti? «Che devono essere fieri dei loro figli, perché hanno svolto con grande competenza, umanità e spirito di sacrificio il compito che erano stati chiamati a svolgere. In Afghanistan ho visto uomini e donne operare con professionalità in situazioni difficilissime, consapevoli dei rischi che correvano e convinti di agire per dare alla popolazione civile una speranza di vita migliore. Capisco che possa fare rabbia, perché la “missione è fallita”, e molti pensano che i nostri soldati siano morti per niente; ma nessun gesto compiuto per gli altri è mai inutile». Chi è Lo Storico. Gastone Breccia è nato a Livorno nel 1962. Insegna Civiltà bizantina, Letteratura bizantina e Storia militare antica all’Università di Pavia. Ha pubblicato diversi scritti di taglio storicofilologico su testi della cultura bizantina. Negli ultimi anni il suo lavoro di ricerca si è concentrato sulla storia militare, in particolare sui rapporti tra la teoria militare bizantina e quella occidentale, sulla guerriglia, sulla controinsurrezione, sui cosiddetti «conflitti asimmetrici». Ha condotto ricerche sul campo in Afghanistan e Kurdistan iracheno e siriano. Tra i suoi ultimi libri: Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo (Il Mulino, 2016), Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente (Laterza, 2016), I figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma (Mondadori, 2018), Corea, la guerra dimenticata (Il Mulino, 2019). © riproduzione riservata