21 Settembre 2022
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Bisogna «parlare di questo amore non come una realtà bell’e pronta, subito matura, ma come un certo compito, una fatica da intraprendere». Tale dichiarazione formulata dall’allora Arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, nel corso delle sue meditazioni rivolte ai giovani (oggi racchiuse tra le preziose ed illuminanti pagine del libro Amore e desiderio), custudisce in sè la più integra e concreta definizione d’amore, dalla quale scaturisce l’ineffabile e diromperente eco della verità che risuona nel profondo di ognuno di noi. Essa stessa però non può essere ricercata senza un’autentica riscoperta ed integrazione del desiderio, il quale come la sua affascinante e suggestiva etimologia ci suggerisce, (il termine risulta composto dalla preposizione de- che in latino ha sempre un’accezione negativa e dal “sidus” cioè “stella”, quindi s’ignifica letteralmente: “mancanza di stelle”) è il segno più eloquente della nostalgia d’infinito, presente in ogni essere umano. In un’epoca, come quella attuale dove l’amore viene spesso banalizzato e ridotto a effimere sensazioni e sentimenti fugaci, il futuro pontefice polacco, ci ricorda che l’amore è un cammino ed in quanto tale, non privo di fatica ed insuccessi, procurati ed al contempo esacerbati dalla ferita del Peccato Originale che pone l’uomo nello stato di “naturae creatae et lapsae”, ossia “creata e decaduta”, condizione che si manifesta anche mediante la tensione tra il proposito di raggiungere l’ideale e la nostra reale fragilità. Questo non significa assolutamente aderire ad una concezione pessimistica dell’uomo e della sua corporeità, tipica ad esempio del manicheismo, ma al contrario, ci rende più consapevoli del fatto che la Rendenzione si manifesta proprio nella precarietà ed a partire da essa. Lui, l’autore di quest’opera divenuta poi parte di un ricco ed arricchente magistero, lo sapeva bene, era infatti perfettamente conscio che dietro le domande, le cadute e le confidenze accolte non solo ma anche attraverso la via privilegiata ed intima dei Sacramenti, ed in particolare nella Confessione – dove i giovani potevano, senza alcuna paura o vergogna svelare la verità del loro essere fallibili – si celava la Storia della Salvezza. Un Salvezza concreta ma visibile solo agli occhi di chi sa educare, restando fedele al significato che i Romani attribuivano al verbo “educĕre”, ossia “trar fuori, allevare”, non attraverso l’opprimente giogo delle norme, bensì testimoniando l’intrinseca bellezza di una vita viva e vivificante. Una vita che li avrebbe resi, come lui stesso affermò il 19 agosto del 2000, durante la veglia della Gmg a Tor Vergata “Sentinelle del mattino”.