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Francesco Mariani
È il gennaio del 1973 quando su invito della Regione Sardegna e dell’Ipalmo (Istituto per le relazioni tra Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente), Giorgio La Pira si trova a Cagliari per aprire il convegno internazionale dedicato a Le condizioni per lo sviluppo dei paesi dell’area del Mediterraneo. Sono anche quelli anni intensi: a dicembre del 1972 l’esercito americano interrompe i bombardamenti sul Vietnam del Nord, ed è proprio pochi giorni dopo l’evento di Cagliari che a Parigi si sigleranno finalmente degli accordi di pace tra Stati Uniti e Vietnam. Il “sindaco santo” commentava così la notizia degli accordi: «C’è proprio oggi nel cuore di tutti – nel cuore profondo della storia – una domanda tanto dolorosa: “Perché la distruzione di tanti valori e l’olocausto di tante vittime in questi sette tristissimi anni di guerra?”. […] Mistero dell’ingiustizia umana!». Mistero ancora irrisolto, verrebbe da dire.
La giornata cagliaritana permise a La Pira di rilanciare la sua visione mediterranea, già impostata dal 1958 con quegli straordinari eventi che egli stesso organizzò a Firenze: i Colloqui mediterranei. Ed è al pubblico di Cagliari che La Pira spiega in cosa consistessero questi colloqui: «si trattò di convocare a Firenze, di far convergere verso Firenze, i popoli mediterranei; farli incontrare in S. Croce (nel ricordo di S. Francesco e della sua azione di pace svolta nel 1200 col Sultano) ed in Palazzo Vecchio; ed iniziare a Firenze, nell’occasione di questo incontro, quel tessuto di negoziato globale e di pace destinato a dare unità, giustizia e pace a tutti i popoli mediterranei, dell’unica famiglia di Abramo». Nati da un’intuizione dell’allora re di Marocco Muhammad V, La Pira raccolse l’invito e riuscì a coinvolgere figure chiave come l’egiziano Nasser o l’israeliano Ben Gurion, e con delegazioni di francesi, algerini, siriani, giordani, libanesi, tunisini. Fu in quell’occasione che «il discorso della pace mediterranea era effettivamente iniziato», invitando a uno stesso tavolo le principali parti in conflitto: in quegli anni soprattutto «arabi ed israeliani; algerini e francesi». E i risultati non mancarono: «La pace algerina prese radice proprio in questo colloquio […] la distensione franco-tunisina si operò pure al Colloquio: e molto migliorarono […] le relazioni franco-marocchine; anche le relazioni arabo-israeliane videro qualche schiarita».
Dopo la battuta d’arresto della guerra vietnamita, La Pira ricorda anche l’emergere e l’assumere «contorni politici nuovi» del «problema palestinese», riaccesosi recentemente in tutta la sua tragicità. In un discorso a Gerusalemme la «tesi fiorentina» per tal conflitto fu così espressa: la «soluzione del problema palestinese non può essere che politica: il possibile dialogo politico arabo-israeliano non può, ormai (se vuole essere efficace e risolutivo davvero) che essere triangolare: Israele, Palestina e gli altri stati arabi».
La Pira prosegue il suo discorso sviscerando tre punti fondamentali. Intanto, dall’avvento della bomba atomica ha preso avvio l’«età finale» della storia. La sua specificità, per citare Günther Anders, è data dal fatto che essa contempla la possibilità concreta della «autodistruzione del genere umano» e quindi questa epoca «non può avere fine che con la fine stessa» dell’umanità intera e della vita per come la conosciamo. Ecco perché la consapevolezza di quegli anni suonava da Pechino a Mosca a Washington così: «al negoziato globale non c’è alternativa». In secundis, La Pira ritenne utile incardinare questo discorso entro una cornice biblica. Egli legge nella vicenda profetica di Isaia (Is, 2) l’indicazione di una destinazione comune del corso umano, l’idea cioè di un’affluenza di tutte le genti come destino che spetta all’umanità in virtù del «piano della Provvidenza “che governa il mondo”, come Dante dice (Paradiso, XI)». La speranza che muove La Pira è dunque radicata in questa convinzione: che la storia sia «irreversibilmente avviata», nonostante tutto, verso questa frontiera di comunione «di giustizia e di pace» indicata da Isaia. In altro senso, egli vede proprio nell’età apocalittica del nucleare, che per prima fa sperimentare all’uomo la possibilità autodistruttiva, un potenziale di spinta all’unità del genere umano: l’alternativa è segnata, o l’unità o perire «sprofondando con lo stesso pianeta, nell’abisso senza speranza della catastrofe nucleare». A tal proposito La Pira sentì che, per iniziare a (ri)comporre una pace unificatrice, bisognasse rimarginare le «gravi lacerazioni interne della famiglia di Abramo»: un compito proprio dei popoli mediterranei. Egli si riferisce qui alla «triplice famiglia monoteista» composta da ebrei, cristiani, musulmani e raccolta intorno alla figura di Abramo, appunto, che dal Concilio Vaticano II (vedasi la Nostra Aetate) viene riconosciuto quale punto di convergenza per le tre religioni. Per il “sindaco santo” la loro unità è «essenziale ed è in qualche modo quasi una premessa per l’unità della intiera famiglia dei popoli». Compito dei mediterranei è dunque quello di contribuire a realizzare quel «”sogno unitivo” di Abramo» secondo il quale «saranno in te benedette tutte le nazioni della terra» (Gen, 12) e, in fondo, l’ideale di Gerusalemme quale «città della pace universale», capitale «di tutte le nazioni».