5 Luglio 2023
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Nuoro - La prima volta di don Luigi Ciotti a Nuoro è stata nel 2002, per la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie promossa da Libera.
Abbiamo vivo il ricordo di quella giornata e di una stagione di grande impegno ma da allora, negli ultimi anni, sembra che qualcosa sia andato perso nella lotta per la legalità, è così?
«Siccome c’è meno sangue, meno forme di violenza dirette e non ci sono grandi attentati si è passati nella percezione di gran parte degli italiani dalla lettura del crimine organizzato mafioso al crimine normalizzato. È diventato uno dei tanti problemi. Ma è anche vero che se la società e nella società la politica non affronta il problema delle disuguaglianze, la dispersione scolastica, la povertà educativa, il problema del lavoro, della casa e del sostegno delle famiglie, diventa a sua volta criminogena perché favorisce il crimine. Perché in Italia da oltre 150 anni noi parliamo di mafia, nonostante la generosità, l’impegno e il sacrificio di tanti ieri come oggi? È perché si pensa sempre che questo sia un compito delle istituzioni, invece tutti sono chiamati a far la loro parte. Finché non c’è una presa di coscienza collettiva che questo come altri problemi ci riguardano e chiedono a ciascuno di noi di fare anche la nostra parte, di essere coscienze inquiete, vive e impegnate, di essere non cittadini e intermittenza a seconda dei momenti e delle emozioni ma cittadini responsabili, noi non usciremo fuori.
L’esser stati qui in quell’anno era un segnale di stima, di riconoscenza, stare vicino alla gente di questa terra per le forme criminali che l’avevano toccata e fatto soffrire tantissimo ma anche per dire che bisognava dare una continuità all’impegno. Bisogna non dimenticarsi che “loro” ci sono, ma ormai lavorano nell’alta finanza, investono il denaro in fondi, nell’immobiliare, acquistano in contanti e ne hanno tanti di soldi che arrivano da tutte le forme di illegalità, traffico della droga, dei rifiuti… Ora è successo un fatto nuovo nel Paese e cioè che le grandi organizzazioni criminali si sono messe insieme per il riciclaggio e hanno creato un’unica cabina di regia affidata a dei professionisti che intercettano questo denaro e lo investono. È un dato molto preoccupante. Non dobbiamo pensare che sia un problema che riguarda solo qualche regione d’Italia, oggi le organizzazioni criminali sono soprattutto al Nord, dove fanno affari. Ma c’è anche un altro dato che è emerso con forza: è aumentato il numero di imprenditori e commercianti che vanno a cercare queste agenzie di servizi che sono organizzate dalle mafie. Tutto questo per dire che ci vuole un’attenzione anche a leggere le trasformazioni che le organizzazioni criminali hanno attuato. Purtroppo, al di là di alcuni proclami, c’è anche molta assenza nella politica del Paese. Dico proclami perché di fatto le leggi non aiutano, non sono così radicali e forti, sono fatte di compromessi, di mezze misure. Invece la lotta alla mafia ha bisogno di meccanismi legislativi chiari, trasparenti e senza sconti».
Noi, come Chiesa, che cammino abbiamo fatto da quel famoso grido di Giovanni Paolo II a oggi e che cammino ancora ci resta da fare su questi temi?
«È cambiato moltissimo, molto in positivo. Ci sono stati nella Chiesa, nell’arco degli anni, momenti alti e momenti bassi, ci sono state anche persone conniventi e che hanno favorito in forme diverse le organizzazioni criminali rendendosi complici, però c’è una Chiesa che ha tratto il suo coraggio, la sua forza, la sua testimonianza. Non parlo solo di vescovi, di sacerdoti o di religiosi ma anche di fedeli, comunità, parrocchie e organizzazioni cattoliche e non solo. Bisogna riconoscere tutto questo. Certamente la voce di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi è stata importante, fondamentale. Fu una grande svolta. Così anche Benedetto XVI quando a Palermo non si stancò di dire “mafia strada di morte” proprio per dare un segnale e per incoraggiare i giovani. E c’è la testimonianza di due sacerdoti che hanno pagato con la vita, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. È stato importante poi l’incontro di Papa Francesco con Libera e i familiari delle vittime della violenza criminale mafiosa a pochi mesi dalla sua elezione. Li ha ascoltati, li ha abbracciati ma poi ha trovato il coraggio e la forza per dire guardando i familiari: “Adesso voglio parlare ai grandi assenti, agli uomini e le donne delle mafie, convertitevi e cambiate”. “Vi supplico. In ginocchio”, con le parole di Paolo VI alle Br. Il Papa ha stimolato e incoraggiato uomini di Chiesa a mettersi il gioco. Ci sono dei bei segnali ma questo non toglie che deve allargarsi la coscienza, la sensibilità, anche perché le mafie sono tornate più forti di prima. In forme e modalità diverse. Non dimentichiamoci che l’ultima mafia è sempre la penultima perché nel codice genetico dei mafiosi c’è un imperativo, quello di rigenerarsi. Non bastano le grandi operazioni con tanti arresti. Non basta tagliare in superficie la mala erba. Dobbiamo chiederci se continuiamo a combattere il male solo in superficie, nei sintomi o se andiamo ad estirparlo alla radice. E questa è una sfida culturale, educativa e d’impegno sociale».
Mi è piaciuto il fatto che di don Milani abbia sottolineato il fatto che fosse “un prete”, questo lo libera da tante etichette che in questi anni gli sono state affibbiate. E forse questo un po’ vi accomuna.
«Un prete, certo, e lo dice la scelta che ha fatto, e che farò anch’io un giorno, io piccolo piccolo, di essere sepolto con gli abiti sacerdotali. Perché quest’impegno a fianco delle persone – che è un impegno certamente politico come servizio per il bene comune ed è un impegno sociale – è un impegno carico di amore, per dare la libertà e la dignità alla gente, è una pastorale, anche questa, che non possiamo dimenticarci. Per me, per noi, per Lorenzo, la riflessione, il silenzio e la preghiera, quella solitudine che ho invitato tutti a fare propria, è riuscire nel nostro camminare a fermarci e guardarci dentro, a rinnovare un po’ la nostra passione, il nostro impegno, il nostro coraggio».