26 Gennaio 2023
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Tra le tante crisi di cui parliamo (politica, sanità, economia ecc.) spesso ci si dimentica quella del sindacato. La questione non è di poco conto: siamo dinanzi ad una crisi di sistema. Senza la rappresentatività sociale e politica dei sindacati, dalla protesta collettiva, consapevole e nazionale si passa alle rivendicazioni corporative, alla frammentazione dell’interesse generale e all’egoistica ricerca di un presente migliore senza un domani.
La crisi dei sindacati inizia negli anni ’80. Proprio allora, si verificava, anche in Italia, seppure in ritardo rispetto alle economie più avanzate, la rivoluzione postindustriale: la crescita impetuosa dei servizi e il decadimento nella produzione dei beni. Un cambiamento silenzioso che stravolgeva le tradizionali relazioni di lavoro. Il sindacato rimase ancorato allo schema classico dei rapporti di fabbrica, perdendo l’aggancio con il nuovo mondo produttivo, quello dei servizi, appunto. In questo modo si avviava a diventare una rappresentanza di pensionati.
Inoltre si dimostrava impreparato a fare i conti con la globalizzazione e l’avvento di Internet. Il primo fenomeno ha accentuato lo spostamento fuori dall’Italia della produzione di beni. Nelle poche grandi fabbriche restate da noi, la proprietà è in molti casi passata in mano a gruppi stranieri poco o nulla interessati alle relazioni sindacali. Internet, in aggiunta, ha consentito la delocalizzazione anche dei servizi. Basti pensare ai call center, ai centri di elaborazione dati, allo smart working o alle figure a metà strada tra lavoratori autonomi e subordinati. Tutti questi cambiamenti hanno disarticolato il tipo di rapporti che intercorrevano tra i lavoratori di una grande fabbrica o dell’ufficio.
Il sindacato è rimasto prigioniero del modello della fabbrica con la pretesa impossibile di applicarlo alle nuove forme di lavoro. Funziona tra i pubblici dipendenti ma non nel rimanente universo lavorativo.
La crisi della rappresentanza sindacale alimenta la frammentazione dell’ognuno faccia da sé e vinca chi strilla più forte. La società è frantumata sempre più dall’inseguimento di un “particulare” di categoria, di quartiere, di città, di regione contro altre categorie, altri quartieri, altre città, altre regioni. Ognuno protesta per il proprio orticello: benzinai, tassisti, autotrasportatori, titolari di concessioni balneari. Corporazioni potenti, slegate dal contesto generale e nazionale.
I sindacati confederali pagano anche il prezzo della scomparsa dei poli di riferimento politici: del Pci (Cgil), della Dc (Cisl) e del Psi (Uil). Con essi si era realizzata la stagione della “concertazione”, un passo avanti rispetto alla semplice contrattazione, un riconoscimento dell’importanza politica e sociale delle rappresentanze dei lavoratori. Oggi è ancora in vigore ma ha un ruolo marginale. Di grande importanza erano anche i Centri Studi e le Scuole di Formazione dei sindacati (ma anche dei partiti politici).
Ecco perché è importante che i grandi sindacati confederali sappiano interpretare e rappresentare i nuovi contesti nei quali viviamo, perseguano strade di coesione sociale, mostrino più realismo e meno schemi ideologici, riescano a rinnovarsi mettendosi alle spalle autoreferenzialità e successioni dinastiche, abbandonino il vecchio e stucchevole linguaggio sindacalese. Per la Sardegna, come per tutti, sarebbe una bella boccata d’ossigeno.