Il lavoro e l’etica
di Francesco Mariani

3 Maggio 2023

4' di lettura

Il lavoro, che in latino significa “pena”, “sforzo”, “fatica”, in sardo “labore” ossia coltivazione della terra (diverso da “traballu”), è l’espressione della persona, la modalità con cui la realtà viene modificata materialmente e culturalmente. È l’apporto che ogni persona dà perché esista una convivenza civile. Ecco perché la disoccupazione, prima ancora che una tragedia economica, è una devastazione antropologica: nega la possibilità di conoscere ed esprimere concretamente quello che siamo. «Il lavoro – diceva San Giovanni Paolo II – è amore rivelato». Qualunque esso sia esprime la concezione che si ha della vita, del bello, dell’uomo.

Lo studente che confonde la scuola con un parcheggio sociale e tutto fa tranne che il suo lavoro (ossia studiare, apprendere) si sta ritagliando un futuro da posteggiato, da sbarcare con accozzi e sempiterne clientele. In Italia, c’è un numero pauroso di giovani che non studiano e non “lavorano”. Pensano che il lavoro sia semplicemente un diritto come l’essere promossi scolasticamente senza aver studiato. Si pretende l’ozio assistito, il paradiso terrestre senza fatica, la bacchetta magica della Fata Turchina. Da noi manca la cultura del lavoro, dell’intrapresa.

Nella nostra storia nazionale non era mai accaduta una scissione così profonda fra lo sviluppo tecnico-economico e quello etico. Il vile denaro è diventato la cifra dell’imprenditore e del suo dipendente, il mercato l’unico signore. Marx lo aveva descritto lucidamente: c’è la riduzione del tutto ad una merce. Si tratti dell’utero in affitto o del commercio di organi, di braccianti immigrati o di porno star, di politica o di multinazionali (umanitarie e non), di istruzione e sanità, tutto è tradotto in denaro e merce. Non a caso il potere finanziario ha sostituito quello dell’industria ed è diventato il motore dell’economia. Se giocando sugli interessi finanziari, in Borsa o in banca, si ottengono più soldi che dal fatturato di un’impresa è ovvio preferire il rischio speculativo piuttosto che imprenditoriale. Il capitalismo classico reinvestiva i suoi utili nel potenziare le capacità produttive; quello “liquido” dei nostri giorni crea denaro dal denaro, è basato sull’edonismo non sul lavoro. È il trionfo dell’idolatria, di mammona, per dirla in termini biblici, che ha come sinonimo la corruzione.   
Per combatterla sono state varate flotte di leggi senza rendersi conto che più numerose sono le leggi, meno esse vengono prese sul serio. Come le “grida” contro i “bravi”, di manzoniana memoria. I problemi del lavoro sono rimasti irrisolti perché ciò che manca è la base etica sia da parte datoriale che da parte occupazionale. Non c’è da rimpiangere i tempi di quando il pastore tornava a casa sua raramente, senza conoscere festività e ferie; neanche quelli dei cottimisti che per costruire la Costa Smeralda lavoravano quindici ore al giorno. E non erano pubblici dipendenti con stipendio garantito! Ma, allora, c’era una cultura del lavoro ed un senso di responsabilità personale.   

Oggi manca una fiducia reciproca, ossia la premessa di ogni relazione lavorativa. In un rapporto del Censis l’Italia veniva definita come una società delle sette giare”ove il termine “giara” sta ad indicare un contenitore «a ricca potenza interna ma con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti esterni»È la società individualista e narcisista, dei benestanti per destino e non per sudore.

Infine, permettetemi una bestemmia: ritengo – opinione mia personale – che la proprietà di quanto riguarda energia, beni primari (acciaio, zinco, acqua, terre rare ecc.), rete di telecomunicazioni ed altre realtà strategiche, debba essere dello Stato, ossia di noi tutti. Per creare possibilità di lavoro, per favorire le imprese ed avere una base solida su cui costruire. Europa o non Europa permettendo. Su questo, paradossale, fascismo e comunismo dicevano la stessa cosa.

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