2 Novembre 2020
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Quando ci si pone di fronte a un capolavoro assoluto c’è sempre il pericolo di cadere nella banalità o la tentazione di lasciarsi andare a una esagerata aggettivazione. A costo di correre il rischio proveremo a celebrare i cinquant’anni di un disco: La buona novella di Fabrizio De André. Sia questa l’occasione per (ri)accostarsi all’ascolto di questa perla. Avvertenza: tenere lontano dalla portata di bigotti, benpensanti, presuntuosi maestri che «sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono». Mezzo secolo di vita, incredibile a dirsi. Eppure, ad ogni esecuzione, l’album del cantautore genovese mantiene intatta la freschezza di un tappeto musicale sul quale si muovono testi stilisticamente impeccabili ma soprattutto carichi di senso, poesia che avvicina a Dio e all’uomo. Pur non essendo credente – mai anima artistica fu più libera e inclassificabile – ebbe anzi un rapporto conflittuale con l’istituzione, anche quella ecclesiastica, De André non era estraneo alla materia religiosa. Già nella sua prima raccolta, Volume I del 1967, compaiono ben tre brani che si rifanno esplicitamente ad essa, Preghiera in gennaio – dedicata all’amico suicida Luigi Tenco –, Spiritual e in particolare Si chiamava Gesù. Quest’ultimo brano raccoglie in pochi versi il mondo ideale, umano e spirituale insieme, che diverrà pochi anni più tardi il nucleo de La buona novella:
Non intendo cantare la gloria né invocare la grazia e il perdono di chi penso non fu altri che un uomo come Dio passato alla storia ma inumano è pur sempre l’amore di chi rantola senza rancore perdonando con l’ultima voce chi lo uccide fra le braccia di una croce.
Si chiamava Gesù, censurato dalla Rai, viene trasmesso dalla Radio Vaticana nel corso del programma “Dimmi come canti”, ideato e condotto da Paolo Scappucci e Piera Damaso, entrambi impegnati nella Pro Civitate Christiana. Quella stessa Cittadella d’Assisi decisiva per Pier Paolo Pasolini e il suo Vangelo secondo Matteo, di qualche anno precedente, capolavoro che sta al cinema come La buona novella alla musica e alla poesia. Sono anni di grandi sommovimenti, di rivolte e di speranza, e per il mondo cattolico del fermento del post Concilio, non è un caso che l’opera venga composta allora, curiosamente lo stesso anno in cui esce il disco Jesus Christ superstar, la Passione rock che diverrà un film nel 1973. Gli amici di Fabrizio – come spiega lui stesso presentando una suite de La buona novella nel corso dell’ultima tournée (che ha toccato anche Nuoro, il 23 luglio 1998) prima della morte – giudicavano quel lavoro anacronistico perché si occupava di Gesù nel pieno della rivolta studentesca: «Non avevano capito – spiegava l’autore – che La buona novella è un’allegoria, paragonavo le istanze migliori del movimento sessantottino a quelle più elevate spiritualmente di un uomo che 1968 anni prima, proprio per contrastare gli abusi di potere e i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. Quell’uomo si chiamava Gesù di Nazareth e lo considero il più grande rivoluzionario di tutti i tempi». Ebbene, per cantare quell’uomo pur non dandogli esplicitamente la parola, De André sceglie di non rifarsi ai Vangeli canonici, a quello che chiamava «l’ufficio stampa di Gesù Cristo », ma agli apocrifi (ai quali si avvicinò grazie a un sacerdote, don Carlo Scaciga della diocesi di Novara), in particolare al Protovangelo di Giacomo e al Vangelo arabo dell’infanzia «i cui personaggi – spiegava ancora il cantautore – perdono forse un poco di sacralizzazione a vantaggio di una maggiore umanizzazione». L’album vede la luce, dopo un anno di lavoro, nel 1970. La prima traccia è una breve intro di pochi secondi, il coro Laudate Dominum. Segue poi L’infanzia di Maria: all’età di tre anni la bambina viene portata al Tempio dove «dicono fosse un angelo a raccontarti le ore, a misurarti il tempo fra cibo e Signore». All’età di dodici anni Maria viene espulsa perché impura – «per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso» – e, dopo una sorta di lotteria, data in sposa a un falegname, Giuseppe, carico di anni e di figli. «E mentre te ne vai, stanco d’essere stanco,/ la bambina per mano, la tristezza di fianco,/ pensi: “Quei sacerdoti la diedero in sposa/ a dita troppo secche per chiudersi su una rosa/ a un cuore troppo vecchio che ormai si riposa”». Partito per dei lavori fuori dalla Giudea Giuseppe vi fa ritorno dopo quattro anni, il racconto dell’incontro con Maria è affidato al brano Il ritorno di Giuseppe. Attraversato il deserto – «una distesa di segatura» – l’uomo sente già l’odore di Gerusalemme mentre accarezza una bambola di legno che porta in dono a Maria. In un passaggio di un sublime lirismo, accompagnato solo da archi e chitarra, De André descrive la ragazza che vola come una rondine ad abbracciare Giuseppe, questi nello stringerla a sé scopre che è incinta.
E lo stupore nei tuoi occhi salì dalle tue mani che vuote intorno alle sue spalle, si colmarono ai fianchi della forma precisa d’una vita recente, di quel segreto che si svela quando lievita il ventre. E a te, che cercavi il motivo d’un inganno inespresso dal volto, lei propose l’inquieto ricordo fra i resti d’un sogno raccolto.
Il sogno di Maria è raccontato nella quarta traccia del disco: un angelo la visita, la conduce in volo sino a svanire rimanendo l’eco di «una strana preghiera/ dove forse era sogno ma sonno non era. “Lo chiameranno figlio di Dio”,/ parole confuse nella mia mente,/ svanite in un sogno, ma impresse nel ventre». Ave Maria chiude il lato A del disco, ed è un meraviglioso inno alla donna e si potrebbe dire, senza forzature, un omaggio a tutto quel sentire femminile – che popola la Scrittura e reclama i suoi spazi nella società come nella Chiesa – per troppo tempo ignorato. Quanto mai attuale.
Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore povero o ricco, umile o Messia. Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente.
Il lato B del disco segna una frattura con la prima parte, si apre con Maria nella bottega del falegname. Nel dialogo, sapientemente ritmato dagli strumenti de “I quelli” (la futura Pfm) a imitare martello e pialla, è l’artigiano a rivelare a Maria come il ceppo più grande abbraccerà il figlio.
Mio martello non colpisce, pialla mia non taglia per foggiare gambe nuove a chi le offrì in battaglia, ma tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare
Nel tumultuoso affresco della Via della croce, cinque strofe danno voce ad altrettanti personaggi: i padri dei neonati uccisi da Erode, le vedove, gli apostoli, i rappresentanti del potere, i due ladroni. La scena si sposta poi al Calvario, e vede ancora come protagoniste le donne, Tre madri che sotto la croce vedono morire i propri figli. Il risultato dell’intreccio di versi e rime è un compianto struggente – da molti paragonato alle Sacre rappresentazioni del Duecento – che, oltre a restituire ulteriore umanità al dolore di Maria, rende giustizia a quello delle madri di Tito e Dimaco, i due ladroni a cui è toccata la stessa sorte del Figlio di Dio.
Madre di Gesù: Piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora. Figlio nel sangue, figlio nel cuore, e chi ti chiama “Nostro Signore”, nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di Paradiso. Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce. Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio.
Il ladrone buono, ne Il testamento di Tito, in quello che De André considera «il momento più alto del disco dal punto di vista dell’etica sociale», dalla croce prende a confutare uno a uno i dieci comandamenti sino a comprendere, in Gesù, il comandamento nuovo dell’amore.
Ma adesso che viene la sera ed il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore.
Il disco si conclude con il coro degli umili e degli straccioni che all’iniziale Laudate Dominum sostituisce il proprio Laudate hominem: « Non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio». Fratello di quei piccoli e di quegli esclusi che da Via del campo alla città vecchia, prostitute, drogati, pescatori, rom, pazzi, carcerati, De André è andato a cercare – non a caso incrociando Gesù il Nazareno – nell’arco di tutta la sua vita e della sua produzione musicale. Sono quelle anime salve che dalle periferie esistenziali care a Papa Francesco reclamano la nostra attenzione: sapremo amarli con lo stesso cuore del poeta cantautore? © riproduzione riservata