Satnam Singh
La memoria storica contro la schiavitù
di Francesco Mariani

30 Giugno 2024

4' di lettura

La morte del bracciante indiano Satnam Singh, seppure accaduta a Latina, mi ha molto interrogato. Riepilogo il fatto, attenendomi al doveroso rispetto per quanto emergerà dalle indagini in corso. Satnam che era in Italia da tre anni con la moglie, senza un permesso regolare di lavoro, ossia da clandestino, è morto dopo essere stato amputato di un braccio da una macchina stendi teli per i cocomeri e i meloni. Il proprietario dell’azienda ha riportato lui e sua moglie a casa loro, con il braccio amputato dentro una cassetta, ed il corpo ormai dissanguato. Neanche un tentativo di chiamare il 118 o di portarlo in ospedale. Salario: 4 euro ad ora in nero, senza alcun tipo di copertura assicurativa, sanitaria, tutele previdenziali.

Sconcerta come, in nome del denaro, si possa essere così cinici, privi di rispetto verso la persona umana che è un riflesso di Dio e come tale va guardata. Non quando ci garba ma sempre. Siamo difronte ad una moderna e mascherata schiavitù. Di questo voglio parlare rifacendomi a due grandi personaggi. 

In una famosa lettera (Epistulae ad Lucilium V, 47)Seneca esordisce: «Con piacere ho saputo da coloro che vengono da te che tu vivi familiarmente con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza, questo alla tua educazione. “Sono schiavi”. Anzi, uomini. “Sono schiavi”. Anzi, compagni di vita. “Sono schiavi”. Anzi, umili amici. “Sono schiavi”. Anzi, compagni di schiavitù, se terrai presente che altrettanto è concesso alla sorte nei confronti di entrambi».

Seneca considera ridicolo il comportamento di quanti non cenano con i propri schiavi considerandoli bestie. E, in un passo, dettaglia: «Durante le cene, alcuni schiavi devono pulire gli sputi dei convitati, altri devono raccogliere il vomito degli ubriachi, altri ancora devono mescere il vino agghindati con abiti femminili».

Le parole di Seneca sono in sintonia con quelle di San Paolo nella lettera ai Galati:

«Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». 

Tra Seneca e San Paolo sull’uguaglianza tra liberi e schiavi, c’è da dire che per il filosofo latino l’uguaglianza deriva dalla condizione di essere entrambi, schiavi e liberi, assoggettati allo stesso destino (la morte), mentre per san Paolo l’uguaglianza proviene dall’essere battezzati in Cristo e destinatari della vita eterna. Questa è la grande rivoluzione del cristianesimo. San Paolo non contesta la schiavitù facendo un partito per eliminarla, ma indica un nuovo modo e mondo che poi è quello della rivoluzione silenziosa del cristianesimo. Come si deduce dalla lettera indirizzata a Filemone in cui gli raccomanda con queste parole il servo Onesimo, prima fuggito e ora rimandatogli: «Ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. […] Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore».

Ma oggi, nel nostro mondo illusorio chi conosce Seneca e San Paolo? Tante parole sulle schiavitù ma senza memoria.

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