19 Maggio 2022
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Nel dibattito isolano torna a galla il tema della depressione demografica e dello spopolamento. La Sardegna è oggi la regione con il tasso di nascite più basso in un contesto nazionale pur esso allarmante.
Una questione che si trascina dagli anni ottanta del secolo scorso senza che vi siano stati trovati rimedi. Convegni, inchieste, saggi su quello che allora L’Ortobene aveva definito una “diaspora” ed un “suicidio genetico”. Le cause indicate continuano ad essere soprattutto, se non esclusivamente, di carattere socio-economico. Passano in secondo piano le motivazioni culturali di questo stato di cose. Diciamo subito che non esiste una decrescita demografica felice. Quello che nei decenni scorsi era per alcuni un obiettivo da perseguire, ossia meno popolazione, città più piccole, meno antropizzazione del territorio, si sta rivelando un dramma.
L’idea tanto lodata del “meno si è e meglio si vive” non regge, e si è rivelato per il suo vero significato, ossia l’egoismo puro. Siamo diventati un paese di anziani dal futuro breve. Anche la tecnologia più avanzata ha bisogno di persone, di giovani. Il sovvertimento nei rapporti intergenerazionali porta con sé un nuovo modello di welfare e di spesa sociale non facile da attuare. Quando il numero dei pensionati sostituisce quello delle culle e dei giovani c’è un aggravio dei costi nei servizi sanitari ed assistenziali. Crolla anche la rappresentazione della Sardegna come una ciambella: poco popolata all’interno e densamente abitata lungo le coste. Oggi a piangere c’è anche l’anagrafe dei paesi costieri e delle grandi città, colpite anch’esse da un vistoso calo demografico. La denatalità si mescola con la mobilità territoriale: se prima dal centro dell’Isola ci si spostava verso la costa, oggi sono le stesse coste a perdere abitanti in favore della Penisola e del resto del mondo. Nel nostro modo di pensare, e questo è il vero mutamento antropologico, il figlio non è più una risorsa ma un incomodo, tanto da diventare l’ultima scelta rispetto all’automobile, la casa, la carriera, il lavoro. È vero che le politiche non incoraggiano la maternità e non la sostengono adeguatamente, ma è anche vero che nell’universo femminile vengono ben prima altre aspirazioni.
D’altronde, prima della denatalità viene la scarsa propensione al matrimonio (sia civile che religioso), la fragilità dei rapporti famigliari, la sterilità sempre più diffusa, il differire oltre il tempo naturale le scelte procreative. Sono gli effetti del benessere, delle civiltà imperniate sul consumo e sull’edonismo.
In esse si registra non solo il picco della depressione della natalità ma anche il più alto tasso di suicidi, di eutanasie, di rifiuto della vita. È cambiata nella nostra testa l’idea stessa di figlio, mamma e padre. Il primo è diventato come il frutto nel tempo della siccità: se si può lo si elimina altrimenti lo si mangia senza entusiasmo, trasformando la delusione in ritorsione verso tutto e tutti.
Mamme e padri sono diventati sindacalisti dei loro pargoli e li usano come arma di ricatto reciproco quando la relazione tra loro si incrina. In questo contesto gli affetti sono diventati merce di scambio e i bambini palline di ping pong. Infine, ma non ultima, c’è la nostra versione culturale nichilistica.
Non abbiamo più nulla per cui valga la pena di dare la propria vita.
La gratuità è stata sostituita dal dono finto ed interessato. L’io espanso ha decimato il noi. Dove c’è solo l’io non può esserci spazio per altri.
Il tu, l’altro, diventa oggetto usa e getta, volgare strumento. Per questo, guardandoci attorno, senza pregiudizi, possiamo vedere in atto un’estinzione, un deserto che avanza tra la nostra gaia incoscienza, seppure talvolta si presenti come pensosa.