La Sardegna tra clientele e pubblico impiego
di Francesco Mariani

19 Ottobre 2024

3' di lettura

Negli ultimi 50 anni, le coordinate della nostra isola sono state tre: la politica, il pubblico impiego, il clientelismo. La politica intesa sostanzialmente come professione, sistemazione occupazionale da cui lucrare e da difendere con i denti. Questa concezione ben si abbina con il culto del pubblico impiego e con il sistema clientelare. Il sogno diffuso tra i sardi (e nel Sud Italia in generale) è quello di su postu, di uno stipendio, non salario, a tempo indeterminato. Il clientelismo serve per appagare questo sogno e garantire l’eternità di chi lo alimenta ai fini del controllo del consenso.

Tutto questo diventa più chiaro da capire se si pensa alla filosofia sottostante alle politiche economiche isolane. Esse sono state e ancora sono, in gran parte, politiche sociali mascherate come investimenti produttivi. Non mirano a produrre merci ma a produrre posti di lavoro. La macro-industrializzazione, creata con soldi pubblici, non rispondeva a logiche di mercato ma assistenziali. Se l’Enichem chiudeva i conti in rosso non c’era problema: ripianava Pantalone. Cosa inaccettabile in un libero mercato ed in una programmazione economica razionale.

Per non parlare del mitico contratto d’area di Ottana. Sulla carta una lodevole iniziativa che vedeva insieme la Provincia, Confindustria, i sindacati. Da Roma arrivò una vagonata di soldi. L’esito finale fu la realizzazione di qualche capannone mai entrato in produzione e l’assunzione di zero operai. Di tale operazione truffa nessuno ha risposto ne sul piano politico ne su quello giudiziario. Una vergogna coperta dal silenzio anche di chi abitualmente grida e sciopera. 

La politica nostrana ha trasformato la Regione in una mucca da mungere per ogni qualsivoglia cosa: contributi, rimborsi, indennizzi, sussidi per conquistare consensi ma non per alimentare la cultura del lavoro e dell’impresa. Come diceva il compianto Marcello Lelli, ha drogato gli apparati burocratici foraggiandoli con soldi più necessari per altri servizi. Oggi diremmo: sanità in primis.

Ho capito il cambiamento, o la sottile continuità con questo andazzo, ripensando agli anni ’70. Fino ad allora veniva pubblicato “L’almanacco del Gran Pescatore di Chiaravalle”. Era una sorta di calendario, che in sardo era chiamato “Su Zaravallu”, dove c’erano una serie di consigli sulle coltivazioni, sulle modalità e i tempi, sulla idoneità dei terreni ecc. Al suo posto iniziarono ad essere pubblicati almanacchi dove la voce principale era costituita dalle scadenze per chiedere contributi vari alla Regione, Stato, Cee. È vero che quei contributi sono serviti tantissimo per migliorare le produzioni agro-pastorali, ma è altrettanto vero che in troppi li hanno usati parassitariamente.

Tornando all’oggi non stupisce se la Sardegna, specie la Barbagia, è diventata la portaerei della droga, in particolare della marijuana. C’è il mercato interno da soddisfare, in modo particolare quando maggiori sono i flussi turistici, e c’è un export notevole. Il traffico degli stupefacenti ha sostituito i sequestri di persona. In entrambi i casi latita la cultura del lavoro e dell’intrapresa produttiva. Esattamente come nei circuiti clientelari.  

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