10 Gennaio 2023
8' di lettura
Oristano - Oristano – Non vi è dubbio sul fatto che Nuoro abbia la tendenza a dimenticare tanti suoi figli, una triste abitudine che va di pari passo con la quasi sistematica cancellazione di ampie tracce del proprio passato e della propria cultura. Ma ci sono figure che meritano di essere conosciute e resistono storie che meritano di essere raccontate prima che su di esse scenda il velo dell’oblio.
Bimbia Fresu e il suo Arp studio sono tra questi.
In occasione dell’inaugurazione della mostra dedicata dal Man a Picasso e Guernica, impreziosita dal lavoro delle tessitrici di Sarule con Studio Pratha, abbiamo richiamato un illustre precedente: la mostra “Taccas. Nuovi tappeti sardi”, ospitata dall’Isre ma promossa proprio dall’Arp studio di Bimbia Fresu e Giovanni Battista Erby.
Quell’operazione aveva alle spalle un lavoro durato anni, la sua genesi è in ciò che oggi chiameremmo una “residenza artistica” ma che Fresu preferisce definire «una specie di cenacolo: si stava bene insieme – racconta – di discuteva, ci si scontrava». Il risultato fu proposto per prima cosa all’Isre: «Ho trovato in Paolo Piquereddu un bel supporto – ricorda Fresu – gli altri, compreso Lilliu, erano molto scettici. Accettarono, comunque. L’Istituto si fece carico della pubblicazione, ma l’organizzazione e la realizzazione, oltre che l’allestimento, furono frutto dell’impegno dell’Arp studio». Abbiamo già accennato (nel numero del 27 novembre ndr) ai dubbi suscitati nella “piccola” Nuoro da quell’esposizione ma – sottolinea ancora Fresu – quando «domandai se tra il pubblico ci fosse qualcuno che volesse avanzare delle critiche fu il silenzio. Avevano davanti Gillo Dorfles e ventiquattro maestri, tra i maggiori artisti italiani dell’epoca».
Come spesso accade l’interesse maggiore venne dall’estero, «siamo andati a Düsseldorf, in buona compagnia, poi a Krefeld al museo nazionale tedesco d’arte tessile, poi ancora in Svizzera, fino a Edimburgo. Volevamo arrivare a contaminare noi gli altri, costringerli a fare i conti con noi». Dal punto di vista artistico, si intende.
Torneremo a Edimburgo nel box in questa pagina, qui è utile fare un salto temporale fino ad oggi. Non possiamo non chiedere a Fresu un parere sull’esposizione in corso a Nuoro con le opere di e su Picasso. «È importante – dice – perché dimostra che la tecnica della la tessitura consente una traduzione di qualsiasi linguaggio. Tra l’altro si possono anche inserire altri materiali, si può fare di tutto. Ma culturalmente cosa significa? – si domanda Fresu. È una dimostrazione che è già avvenuta in precedenza, anche Tavolara, Corriga lo hanno fatto. L’intenzione della nostra operazione invece era quella di “schiodare” gli artisti dalla loro realtà e metterli di fronte a una situazione nuova, vecchissima ma nuovissima, senza contaminare nulla. Nessuna operazione può alterare la tradizione e nessuno voleva farlo. Volevamo invece coinvolgere queste persone in termini fisici e culturali, non prendendo un’opera già realizzata ma dicendo loro “vieni qui e fai un’opera per me e verifichi e capisci cosa vuol dire”». Da quel punto di vista è irripetibile.
«Il tempo cancella un po’ la memoria – afferma Fresu – ma se uno ha interesse questa cose le guarda, o le va a cercare». Potrebbe scrivere un libro sugli scambi avuti con tanti e tali artisti, ma negli anni il rapporto è diventato talmente privato, personale, intimo che renderlo pubblico sarebbe quasi tradire quelle amicizie. Fresu non è tipo che suona la grancassa, quando pure avrebbe potuto farlo, non ama la ribalta, non vuole neppure essere fotografato ma allo stesso tempo dimostra una rara disponibilità al confronto, una apertura totale: «Sono qui», dice candidamente, aprendo le braccia. Il suo studio a Oristano è sempre aperto. Ci ha accolto come in passato ha accolto i suoi amici, a partire da Aldo Rossi, e come ha fatto con Roberto Di Caro. Quello del giornalista de L’Espresso è solo un esempio di come il lavoro dell’Arp studio venisse considerato fuori dalla Sardegna. «Mi telefonò e mi disse “Ormai la conoscono tutti, è una operazione di grande interesse”. “Se le interessa venga”, risposi. “Certo”. Venne, è rimasto quattro giorni, ha anche incontrato Lilliu, con difficoltà. Non ho pagato per quel redazionale, non mi sono mai servito della stampa. Faccio le cose che amo fare aprendomi alla luce del sole, non mi nascondo». Quelle tre pagine su L’Espresso del 4 ottobre 1987, corredate dalle immagini delle opere, restano un grande riconoscimento che invece non venne dalla stampa isolana, intenta a snobbare non solo l’esposizione di Nuoro ma anche quelle internazionali. Restano le testimonianze su giornali e riviste specializzate, certo, ma soprattutto l’opera degli artisti.
Aldo Rossi, architetto milanese prematuramente scomparso nel 1997, è il più grande esempio. Nella sua produzione, limitatamente ai tappeti, c’è un prima e un dopo. Un prima e un dopo l’incontro con la Sardegna. E con Bimbia Fresu (anche se lui non lo direbbe mai). A testimonianza di questo passaggio è rimasto un prezioso volume, Tessiture sarde, edito da Storea e stampato a Varese in 999 esemplari, curato da Fresu e Peter Pfeiffer. Le foto delle opere, disegni e bozzetti oltre ai tappeti realizzati dalla cooperativa tessile di Zeddiani, sono di Giorgio Dettori. «Ora – scriveva Rossi – cominciavano a interessarmi i tappeti sardi e anche, cosa che raramente mi è accaduta, il processo tecnico con cui sono realizzati. Guardavo i grandi telai, parlavo con le donne che lavorano come nell’antica Grecia l’omerica tela di Penelope. Forse proprio la tela di Penelope, continuamente distrutta è il miglior simbolo di una tecnica che ignora il tempo, o distrugge il tempo. Come questo paesaggio di sassi e vegetazione antichissima ignora il tempo». E così, riconosce Rossi, di fronte ai complessi nuragici, a Tharros, la sua geometria «si sgretolava» per «ricomporsi» nel monumento di Santa Cristina. Nascono così i tappeti “nuragici”: l’arcaica storia sarda – scrive Heinrich Klotz – agisce nelle sue opere.
Basterebbe questo per dire che Fresu aveva e ha ragione ma il caso di Rossi non fu isolato, si potrebbero citare Aoi Huber Kono, Rudolf Mumprecht, Jacques Herzog e Pierre de Meuron.
Per Bimbia Fresu però queste “corrispondenze” non sono medaglie, tutti gli artisti, architetti, designer di fama internazionale a cui si è legato sono per lui semplicemente «amici», e non mente. Non mentono gli occhi che si fanno umidi al ricordo di chi non c’è più. «Ho la casa tappezzata delle loro opere perché sono nate dentro quella casa. Lì mi rifugio. E sto bene».
Nuoro è lontana, è lontano il fermento culturale nel quale il giovane Bimbia è cresciuto. Era il tempo della Galleria Chironi 88 e faceva gruppo con Giovanni Antonio Pintori, Sergio Cara, Vincenzo Satta. Fresu si è formato all’accademia di Brera poi ha studiato Architettura a Firenze prima di far ritorno in Sardegna, in una sorta di “master and back” ante litteram, dove è nata l’avventura dell’Arp studio.
La riconoscenza è merce rara, la memoria va coltivata, va tessuto l’intreccio delle storie per restituire alla città almeno un po’ di onore e il giusto merito a chi ne ha portato il nome di là dal mare.
Edimburgo e la fine di un sogno
Per “Taccas” la mostra di Edimburgo significa la fine. Eppure la tappa dell’esposizione riscuote un grande successo, tanto da girare diverse città. Un giorno però Fresu riceve una chiamata, lo informano che i depositi dove sono contenute diverse opere d’arte tra cui i tappeti realizzati a Zeddiani sono andati distrutti in un incendio. «La spiegazione è un banale incidente causato da ragazzi che giocavano a pallone. Non credevo a quella versione – racconta Fresu – continuavano a dirmi “ci dispiace”. Io ho dato incarico agli avvocati per una azione legale, è stato doloroso, la società che conservava le opere non ha versato neppure l’assicurazione». Fresu conserva tutte le carte: «La causa è durata 4 anni e non abbiamo avuto nulla, a livello privilegiato sono intervenute le banche e si sono messe tutto in tasca. Hanno avuto un comportamento scorretto, non me lo aspettavo. Ho fatto comunque una denuncia diffidando chiunque dal far circolare quei manufatti in qualsiasi parte del mondo. Ed è finita così, amaramente».
Altre opere nate a Zeddiani sono state, dopo spericolate operazioni, vendute a privati. È una storia parallela sulla quale vale la pena stendere un velo ma che ancora grida vendetta.