11 Febbraio 2021
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Secoli di tabù religiosi, sociali e sanitari, che separavano i malati di lebbra da tutti gli altri, non hanno spento l’audacia di questo giovane ad avvicinarsi a Gesù. La lebbra era allora la malattia più invasiva nella vita di una persona, rassegnata ormai alla maledizione del cielo ed al rifiuto della società e della famiglia. Nell’isolamento forzato il lebbroso perdeva le parole dell’amore e del dolore, della consolazione e del dialogo. Gliene restava solo una: «Immondo, immondo!» che gridava a coloro che incontrava perché evitassero di avvicinarsi e restare contaminati. Esplorava ogni giorno la drammatica geografia del suo corpo e la quotidiana sorpresa della decadenza fisica e morale. Perdeva sé e Dio. «Non temete il grido del cuore che aspetta l’impossibile» (T. S. Eliot). A questo lebbroso va tutta la simpatia per l’audacia che conquista l’impossibile della sua guarigione nell’incontro casuale con Gesù, venuto a immedesimarsi nelle piaghe dell’uomo, secondo la profezia di Isaia: «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 52,13). L’uomo e Dio si raccontano a vicenda con le piaghe del miracolo e a quella località, senza nome, ogni credente è autorizzato a dare il nome del luogo del proprio dolore e della propria speranza. La lebbra ha intaccato la pelle non il cuore e il suo grido, dalla periferia del dolore, arriva dritto a Dio. Forse l’audacia del giovane lebbroso era maturata nella familiarità con le struggenti espressioni dei salmi, tante volte cantati nella sinagoga, e che ora hanno una straordinaria efficacia, perché, come diceva Sant’Agostino, sono parole che Dio stesso ha inventato per essere invocato e lodato. Nelle ginocchia fragili e vacillanti del lebbroso si innesta il vigore della adorazione e sulle labbra affiora l’umile riconoscimento della volontà e della potenza di Gesù: «Se vuoi, puoi purificarmi» (Mc 1,40). La risposta di Gesù è fatta prima di tutto di compassione viscerale, sentimento immortalato nelle icone bizantine del Crocifisso nelle quali l’addome è rappresentato largo e aperto. Siamo a uno dei segni dei tempi messianici. La mano è tesa verso il lebbroso, il contatto fisico che lo purifica, la parola onnipotente ricrea pelle e cuore: «Lo voglio, sii purificato» (v. 1,41). Assistiamo all’esorcismo su tutti i muri innalzati dalle paure e dagli egoismi degli uomini e alla restaurazione della comunione con Dio e con gli uomini. Gesù proibisce al malato di raccontare e spiegare la sua guarigione. La folla è pericolosa come «una canna agitata dal vento» (Mt 11,7) dei miracoli, dei pani e dei pesci moltiplicati, meno disponibile al messaggio fondamentale: «Convertitevi e credete al Vangelo». (v. 15). Gesù incanala la sua attività per vincere la lebbra del corpo e insiemel’alienazione dello spirito. La fede è una scelta che investe la totalità della vita e non la ricerca esasperata di miracoli e di visioni, «Per chi crede nessun miracolo è necessario, per chi non crede nessun miracolo è sufficiente» (F. Werfel). Il lebbroso guarito disobbedisce, racconta a tutti l’esperienza straordinaria vissuta e involontariamente mobilita le folle. Gesù si ritira nel deserto perché vede in pericolo la purezza del suo messaggio e ricorda il tentativo di Cafarnao di chiuderlo tra le sue mura. Il rischio, oggi come ieri, è quello di ridurre il Vangelo a un manuale per una vita sana e felice in questa terra senza la prospettiva della vita eterna con Dio, alla quale il Crocifisso Risorto trascina l’umanità.
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Nell’immagine: Gesù guarisce il lebbroso, mosaico del Duomo di Monreale (XII – XIII secolo)