L’autonomia “differenziata” unisce o separa?
La legge. Invece di riequilibrare il sistema economico e sociale del Paese, accresce lo squilibrio e le diseguaglianze
di Nando Buffoni

22 Luglio 2024

5' di lettura

L’Autonomia differenziata divenuta legge a giugno (entrata in vigore nei giorni scorsi) fa parte di un progetto politico perseguito dalla Lega che rivendica l’autonomia nell’indirizzo della politica economica e sociale da parte delle regioni del Nord, con contenimento del trasferimento delle risorse al Mezzogiorno. Nella sostanza, questa legge attribuisce alle regioni italiane con Statuto ordinario, il diritto di concordare con lo Stato centrale quali settori della vita sociale delle regioni intende gestire, in autonomia, sul proprio territorio. Non dovrebbe sfuggire che le regioni “più avanzate” chiederanno di gestire in proprio un numero maggiore di settori rispetto alle richieste delle regioni “meno avanzate” o “in ritardo”. Ed è logico immaginare che lo Stato Centrale si accorderà con le “regioni avanzate”, le quali hanno raggiunto “standards” ragguardevoli nella gestione delle risorse (generate o affluite nel proprio territorio) espressi dai livelli del tenore di vita più elevati del Paese. È naturale che le regioni “in ritardo” debbano essere sottoposte a uno scrupoloso “screening” per evitare sprechi delle risorse, come evidenziato dagli “standards” modesti conseguiti nel tenore di vita delle popolazioni di quelle regioni. 

È doveroso porre qualche domanda. Qual è lo scopo di questa norma? L’articolo 1 della legge 24 giugno 2024 sulla “Autonomia Differenziata delle regioni a statuto ordinario” recita solennemente: «…nel rispetto dell’unità nazionale, al fine di rimuovere discriminazioni e difficoltà di accesso ai servizi essenziali sul territorio, nel rispetto… dei principi di unità giuridica ed economica, di coesione economica,  sociale e territoriale, anche con riferimento all’insularità… e in attuazione dei principi di decentramento amministrativo e per favorire la semplificazione… la distribuzione delle competenze idonee a rispettare il pieno principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza dell’art. 18 della Costituzione definisce i principi generali per attribuire alle regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…». Che cosa nasconda l’approccio di dare maggior autonomia ad un sistema nel quale esistono regioni che hanno dimostrato la “differenziazione” e “l’adeguatezza” richieste dalla Costituzione nel famoso art. 18? Queste due “doti” sono ampiamente presenti nelle regioni a statuto ordinario “avanzate” e carenti o assenti nelle regioni “in ritardo”. Ad esempio, in Italia, da un lato Piemonte, Lombardia e Veneto; Calabria, Basilicata, Abruzzo e Campania dall’altro. Ma l’elenco è più esteso da entrambe le parti. Se fra i potenziali beneficiari alcuni adempiono ai dettagli della Costituzione mentre altri non ne sono in grado, è lecito affermare che la norma ha una destinazione specifica: invece di “riequilibrare” il sistema economico e sociale del Paese, accresce lo squilibrio e con esso le diseguaglianze. E, pertanto, la norma rispetta i dettati della Costituzione? A bocce ferme, la norma e strapiena di “anti”. 

È necessario porre la domanda: la legge sull’Autonomia Differenziata è compatibile con gli Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030 delle Nazioni Unite cui l’Italia ha aderito ed ha predisposto una propria Strategia? Una lettura attenta mostra che l’enunciazione delle finalità è fittizia perché gli obbiettivi reali sono contrastanti: destinati a beneficiare una parte delle regioni ed accrescere gli squilibri economici, sociali e territoriali per le altre. 

La Regione Sardegna ha fatto benissimo a porsi come capofila nel contrasto alla legge sull’Autonomia differenziata. Che le piccole regioni del Mezzogiorno a Statuto ordinario non si siano opposte, è probabile per timore di ritorsioni da parte del governo centrale oggi governato da “sodales”, non è espressione di maturità politica e sociale.


Cosa sono i Lep

Due parole su un acronimo che regge la legge n. 86. È il Lep (Livello Essenziale di Prestazione), termine che indica il livello minimo di assistenza, di sostegno, di agevolazione garantita in misura eguale ai cittadini nei settori concordati dalle Regioni con lo Stato centrale. Quale sia il “livello essenziale” dovrà essere definito entro 24 mesi (all’incirca, luglio 2026). Per quanto si possa volare con la fantasia, si potrà escludere, ad esempio, che per il Lep della Sanità, verrà adottato il livello del Veneto. Questo comporterebbe un trasferimento di risorse dal Bilancio statale nei confronti della maggior parte, forse tutte, le altre Regioni del Paese (a statuto ordinario e speciale). Orbene, la provenienza dei fondi avrebbe tre fonti principali: aumento delle tasse; “a debito”; riduzione delle prestazioni in alcuni settori. Un prelievo a carico del Veneto, difficilmente giustificabile, perché la Regione è quella che “eroga” il Livello Minimo! Diciamo subito che le fonti indicate sono difficilmente proponibili. Pertanto, si cercherà un compromesso al ribasso dei Lep che, in ogni caso, si scontrerà con l’opposizione delle Regioni “avanzate” che effettuano prestazioni superiori al “livello minimo” a trasferire risorse alle regioni che debbono adeguare il livello. 

Un’ultima domanda: gli immigrati con visto di soggiorno o di lavoro, quale trattamento avranno con i Lep? Saranno garantiti? In alcuni paesi, fra i quali Australia e Nuova Zelanda, lo stato rifiuta il visto (o non lo rinnova) a immigrati i quali contraggano infermità che eccedano il costo sanitario di 8 mila dollari l’anno (Lep). In quei paesi, nei casi in cui un membro della famiglia di immigrati contragga una infermità, oppure presenti alla nascita caratteristiche di salute degenerative, gli viene negato o revocato il permesso di soggiorno nel paese! Dopo tutto, Sparta non è tanto distante! E noi, a che cosa andiamo incontro?

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