Marco Aurelio
Le feste in nome del niente
di Francesco Mariani

13 Luglio 2024

4' di lettura

Trascinandolo nell’oggi, mi metto, indegnissimamente, nei panni dell’imperatore Marco Aurelio che nelle sue Memorie, descriveva un mondo, da lui ereditato, prospettandolo per l’allora futuro. «Pensa alla brevità della vita… non credere che sia una gran cosa dover morire fra molti anni piuttosto che domani; compi ciascuna azione come se fosse l’ultima della tua vita».Marco Aurelio si sforza di insegnare ai figli cose che neanche allora erano ovvie. «Adattati a ciò che hai avuto in sorte, e gli uomini con cui ti è toccato di vivere, amali, veramente». Poi raccomanda di non perdere la testa per ciò che tutti amano: i giochi del circo sono per lui disgustosi; disprezza la riduzione del sesso a semplice «sfregamento di un misero membro». Parlando poi di imperatori e senatori annota come ci si appassioni tanto per abiti che non sono altro che «peluzzi di pecora tinti con un po’ di rosso di una conchiglia». 

Venendo all’oggi, quelle considerazioni sono di grande attualità. Tutto è diventato un gioco, uno spettacolo, un’arena. Fai un battesimo e devi allestire un campo di calcio per gli invitati. Fai una cresima e i campi di calcio diventano due. Fai un compleanno e occorre trovare ristorante capace di contenere parenti, amici ed affini. Fai un matrimonio (preceduto dall’addio al celibato) e siamo al delirio: fiori, vestiti, fotografi, registi, damigelle, auto d’epoca, e via inventando e spendendo. Imitando in tutto e per tutto i Vip di turno. Magari ci pensa poi la Caritas a pagare il pranzo di un matrimonio sin dall’inizio fastoso quanto fasullo. 

Si è passati dal “non este cada die Paska” al tutto è una festa ossia un palcoscenico, uno spettacolo. Tizio/a ha dato l’esame di maturità (preceduto dai festeggiamenti dei cento giorni e dal mitico “viaggio di istruzione” che di istruzione non ha un fico secco): genitori al seguito, fiori, berrette, corone, spumante e sfizi vari. Ci sarà poi la replica per la laurea triennale e per quella magistrale. Per ora, ma non per molto, manca solo il festino per la terza media. 

Ci sono poi le feste religiose e del Santo Patrono (l’aspetto religioso spesso va in secondo piano rispetto allo spettacolo), quelle civili, della Donna, del Papà, della Mamma, del Nonno, sagre di ogni specie e genere, festival e festeggiamenti tanto per. Scomparsa la festa per la mietitura, tosatura delle pecore, vendemmia, uccisione dei maiali, tutte legate al lavoro, si è passati al puro divertimento, avvitato e generato dal mercato. Nel primo caso c’è una comunità, un’appartenenza, legami sociali visibili e condivisi. Nel secondo caso c’è una sommatoria di individualismi e di solitudini che non vengono scardinati da un momentaneo stare insieme. Non sarà un caso se proprio durante le grandi feste aumenta il numero dei suicidi e dei litigi in famiglia.  

Nella festa popolare e famigliare c’è la voglia di ricordare ed il senso di uno stare insieme; in quella ridotta a puro divertimento c’è il tentativo di dimenticare, di non pensare, di evadere da se stessi e dal mondo circostante. Cosa già ben percepita nel secolo scorso da Walter Benjamin (La religione del capitalismo) che parlava di “capitalismo divino”, di religione sui generis, dove tutto diventa merce.

Con un esito ben descritto da Ricciardetto (al secolo Augusto Guerriero), che rispose ad un lettore di Epoca gravemente ammalato: «Questo è il problema: trovare il modo di dimenticare se stessi e la propria miseria». Motivo per cui lui diceva di scrivere di politica e di cose che non gli interessavano. A Marco Aurelio invece non interessavano i festeggiamenti in nome del niente.

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