La statua che raffigura il beato Solinas si trova nella parrocchiale di Oliena
Le radici di un testimone universale
di Monsignor Antonello Mura

27 Ottobre 2022

3' di lettura

Un nome contiene sempre una storia. Così come una bella testimonianza è sempre senza confini. In questi giorni – particolarmente il 27 ottobre – festeggiamo Padre Giovanni Antonio Solinas come nuovo Beato universale. Quindi Oliena, insieme a Oran, assume – prima geograficamente e subito dopo a livello ecclesiale – le caratteristiche di un riferimento al quale guardare con fede e con gioia da luoghi diversi, da “mondi” distanti.

Nella Diocesi di Nuoro vivono già questa esperienza – che risulta contemporaneamente centripeta e centrifuga – sia Orgosolo che Dorgali, rispettivamente per Antonia Mesina e Maria Gabriella Sagheddu. E anche in questo caso non contano gli anni di distanza dal protagonista, così come non è fondamentale neanche la conoscenza diretta: si è sempre universali nella misura in cui il locale è aperto al mondo e dal mondo viene riconosciuto.

Una delle cose più belle della nostra esperienza come gruppo diocesano, il 2 luglio scorso a Oran, è stata la percezione che si trattava della festa di un popolo. E della constatazione rinnovata dell’universalità della Chiesa. Perché il popolo coglie e intuisce sempre quello che gli appartiene autenticamente, anche nella fede; sempre sa distinguere chi lo ama, chi dà la vita per lui e non solo le briciole. Il popolo non sa mentire.

Siamo orgogliosi che Padre Solinas sia dei nostri, ma lo siamo ancora di più perché è stato donato ad altri. Le sue radici, affondate nella nostra terra, dimostrano la sua fecondità quanto più essa è irrorata da scelte profonde e illuminata dalla fede. Siamo cattolici per questo: con i piedi in questa geografia ma con lo sguardo universale. Beati quelli che lo vivono e lo condividono; beato padre Giovanni Antonio perché non ha esitato né rimandato il suo dono, e perché non è fuggito neanche di fronte al martirio.

Partito da qui, ora lo accogliamo come memoria grata di tutta la Chiesa, nella certezza che se davvero partire è un po’ morire – e nella fede si muore molte volte – quando si dona tutto di sé le radici diventano una culla a cui ritornare con gratitudine.

A questo riguardo recupero quello che ha scritto Cesare Pavese nel suo ultimo romanzo, La luna e i falò, quando si sofferma sull’importanza di avere una radice, sempre, ovunque poi ti portino le strade e il destino: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Ecco, ci vuole sempre un «luogo nell’anima», esso aiuta a partire e a tornare, anche solo con la gratitudine.
Questa terra, questa Diocesi, il suo paese natale celebra con gioia un figlio senza confini, ma con le radici sempre in mezzo a noi.

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