Pietro Bellotti, Autoritratto come allegoria dello stupore (ante 1659). Gallerie Accademia, Venezia (particolare)
Le regole annoiano. Lo stupore persuade
di Francesco Mariani

5 Maggio 2022

4' di lettura

Per la versione classica della sociologia il termine “cultura” è tutto ciò che attiene al sapere, al lavoro, alla tradizione, al modo di vivere, alle abitazioni, agli utensili, ossia a tutto. Nella vulgata comune la cultura ha a che fare con libri, scuole, università, risse televisive, giornali, competenze specialistiche e qualunque cosa riguardi lo scrivere ed un parlare (poco importa se si offende grammatica e sintassi). Nell’oggi cultura e coltura, cose diverse ed entrambe dignitose, si confondono in un comune denominatore: i soldi. Idee, riflessioni, pubblicazioni e quant’altro si vendono e si comprano. Come si fa al mercato con le patate o i cavoli. Il pensiero è diventato merce disancorata dalla natura della sua esistenza stessa, ossia la passione per il vero ed il reale. Campiamo di polemiche futili ed inutili, di sceneggiature e commedie di un io espanso, fagocitatore, riduttore del tutto alla propria meschina misura.

San Paolo, senza volerlo, ci ha dato la più bella definizione di cultura: «vagliate tutto e trattenete il valore». Il tutto dentro un’altra esortazione: «non conformatevi alla mentalità di questo mondo». Del mondo di allora e di oggi. Davvero liberi nel confronto con tutti, appassionati del vero e del reale, aperti al mistero, cercatori di infinito. Ed è questo che sta mancando, purtroppo, anche nelle nostre comunità cristiane nelle nostre articolazioni laicali. Un tempo c’erano associazioni di medici, maestri, insegnanti, professionisti cattolici che questo orizzonte lo perseguivano, che avevano una domanda nella loro vita, perché la fede domanda mentre il potere comanda.

Il potere, quotidiano, immediato, di ciascuno di noi, prima ancora di quello politico o economico che non abbiamo, si presenta sotto forma di pretesa – perché gli altri non sono come siamo noi o non ci comprendono – o di rimpianto.

Pretesa e rimpianto sono come il rovescio della stessa medaglia. Sono il diserbante della cultura.

Giovanni Paolo II diceva: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Non ha occhi ben aperti per conoscere il vero e accogliere con carità.

Sostituiamo tutto con delle norme, regole, come diceva papa Luciani: «Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole». Senza questo stupore non nasce una cultura cattolica. Possono esserci dei professionisti più o meno bravi (preti, suore, insegnanti di religione…) ma non una cultura, ossia un modo originale ed attrattivo di un riflettere e testimoniare la Verità. Le regole annoiano, lo stupore persuade. André Malraux, che cristiano non era, diceva: «Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo cosa sia la verità». Ecco, sembra che quell’amara considerazione alberghi anche tra noi.

La menzogna, anche se camuffata e contraffatta, la conosciamo: la verità no. Per conoscerla occorre fede e cultura, passione per Dio e per l’uomo, le due coordinate del cuore semplicemente cattolico. Altrimenti ridotto alla donazione di chili di pasta, buonismo e pacche sulle spalle.

La cultura, per me, è una risposta coerente a delle domande che don Giussani poneva: «Perché mi hai creato?». «Perché ti ho amato!». «E perché mi hai amato?». «Perché ti ho amato!». «E perché nella confusione delle tenebre del mondo, Tu sei venuto come luce sul mio cammino, sulla mia strada, mi hai afferrato e collocato dentro di Te, dentro il mistero della tua persona, mi hai chiamato alla comunione con Te?». Domande a cui non di rado i laici rispondono in modo più lucido ed interessante dei preti.

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