28 Luglio 2023
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A partire dalle prime invenzioni tecniche, come la zappa o l’aratro, fino ad arrivare ai nostri giorni con l’irruzione dell’Intelligenza Artificiale (IA), nell’uomo si sono confrontati e scontrati due mondi: quello dello Spirito/coscienza e quello del virtuale/reale. La tecnica influenza e modella da sempre il nostro corpo ma nello stesso tempo ci proietta al di fuori di esso. La pastorizia arcaica o l’edilizia medioevale richiedevano corpi ben diversi da quelli di chi oggi fa lavori al computer. Ma la tecnica è anche l’inseguimento di un sogno, di un desiderio, la traduzione pratica di intelligenza e visione. Per questo è un continuo andare oltre, immaginare, proiettare. E genera un incessante cambiamento di usi e costumi. Basti pensare cosa ha comportato, in termini di socialità, di relazioni interpersonali e di percezione della realtà, l’arrivo, per fare degli esempi banali, del frigorifero, della televisione, degli impianti di riscaldamento e cottura, del telefonino e del decespugliatore. La tecnica, direbbe Marx, è una ruffiana che risponde ad un bisogno creandone infiniti altri. E fin qui ci siamo.
L’era del digitale e dell’Intelligenza Artificiale ci pone davanti ad un grande rischio: l’uomo non più padrone della sua creazione bensì suo servo. Non più io che detto modalità e tempi ma la macchina. Il rischio, ci diceva l’incompreso prof. di Filosofia della scienza, Pasquale Pellecchia, tanti anni fa, che «il mondo visibile non sia più una realtà e che l’invisibile non sia più un sogno». Il nostro futuro dipende dal rapporto tra il nostro Spirito/coscienza e la tecnologia senza volto che abbiamo creato. Da qui i contrastanti sentimenti di ammirazione e di paura. Ne abbiamo bisogno ma vorremmo anche farne a meno.
La tecnologia sta modificando la percezione di noi stessi. Pensiamo al cosiddetto “lavoro a distanza” o alle “lezioni telematiche”: sono una rivoluzione che se portata a compimento renderebbe superflue le relazioni sindacali, scolastiche, didattiche. È come se la nuova identità digitale ci tolga quella reale. Arriveremo a dire di esserci laureati non con questo o quel professore ma con questo o quel robot. L’IA corrisponde bene alla fluidità, post-moderna che caratterizza uomini e cose, società e pensiero. Possiamo dire che ne è lo specchio: riflette una condizione esistenziale, come l’arte che è sempre proiezione e riverbero di un intimo, “de sas intragnas”.
Di mezzo ci sono tanti interrogativi. Essi non riguardano semplicemente il rapporto tra l’uomo e la macchina, se sia lui o lei a dominare. Non è vero che l’IA non ha padroni ed è possibilità di liberazione per tutti. I padroni ci sono e con essi il rischio di un nuovo dominio e sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ci hanno presentato la globalizzazione come criterio di uguaglianza per l’intera umanità: in realtà c’è un ristretto numero di padroni, dittatori ammantati di filantropia, che decidono le sorti, la fisionomia ed il pensiero di miliardi di esseri umani. Quando Francesco Alberoni, primo docente di Psicologia sociale in Italia, ideò la pubblicità per le lavatrici, il ritornello era ecumenico: «Così le famiglie hanno più tempo per fare l’amore». Accontentava tutti, liberava le donne da un peso senza insinuare che la dismissione da un compito tradizionale le avrebbe rese pigre, toglieva ai mariti il pretesto di avere una moglie nullafacente, e ognuno diceva che quell’elettrodomestico era cosa buona e giusta. Oggi non abbiamo a che fare con un elettrodomestico ma con l’interrogativo struggente ed inquietante su cosa significhi essere figli di Dio.