15 Marzo 2023
4' di lettura
Menzus mortu che vivu chin cussa maladia. Meglio morto, dicevano i nostri avi, piuttosto che vivere da malati mentali. Allora non si conoscevano le diverse sfaccettature dei disturbi psichiatrici, le varie tipologie, venivano tutte racchiuse in un’unica diagnosi senz’appello: est maccu, è matto. Qualunque altra patologia era tollerata e tollerabile, tranne quella. Chi l’aveva era marchiato come soggetto pericoloso, socialmente compromettente, infido e quindi da evitare in tutti i modi. C’era comunque una sorta di pietà cristiana nel dire e non dire direttamente che uno era malato di mente: “li mancat sa menzus die de s’annu”, “no est sìnzeru”, “mischineddu, est attu gai”, “lassalu istare ca non b’at capu”, “est che berbeche gaghinosa”, “cuffunnet su prattu chin su tazzeri”.
Ricordo un vecchietto del mio paese che matto non era, ma svampito sì, devastato dai gas nervini della Grande Guerra passava tutto il giorno, in un piedistallo di granito, battendo il suo piccolo bastone-stampella, a canticchiare una rapsodia: «General Cadorna ha fatto fesseria/ soldati andati in guerra/ e tutta roba mia…». Ma lui non era matto, era uno che ormai “non bit in tzerebros”, incapace di intendere e volere e anche di fare del male. Per tutti non era maccu ma malaidu. Una differenza linguistica e sociale non da poco.
Oggi abbiamo a che fare con una infinità di disturbi mentali. La legge Basaglia, ringraziato sia Dio, ha chiuso i manicomi demandando ad apposite strutture e servizi la cura di questo tipo di persone. Il fatto è che queste strutture e questi servizi o non esistono o sono ridotti al lumicino, e comunque sono burocratizzati all’eccesso. Viene scaricato tutto sulle famiglie che spesso, nella solitudine, scoppiano. E ogni giorno leggiamo cronache di fatti orribili addebitati alla “follia”, al gesto “inspiegabile”, alla “fatalità”. Si ha paura di chiamare con il proprio nome questo tipo di malattia.
Nelle vertenze sulla sanità la grande assente è la salute mentale. Non se ne parla proprio. Qualsiasi altro servizio sanitario viene assolutamente prima di quello psichiatrico. Le malattie fisiche si conoscono, si chiamano per nome, si notano i principali sintomi, si diagnosticano rigorosamente. Con quelle mentali non avviene niente di tutto questo. Il più delle volte non si sa neanche come interagire col paziente. Si finisce spesso, con buone intenzioni, per minimizzare e non riconoscere il malessere altrui. Siamo nel campo del “fai da te” sanitario.
Abitualmente i malati psichici sono restii a chiedere assistenza e a intraprendere un percorso terapeutico. Di mezzo ci sono esperienze negative (comprese diagnosi totalmente divergenti fatte sullo stesso caso da psichiatri), scarsa informazione, senso di vergogna. Di frequente, inoltre, chi soffre di queste patologie non riconosce di averle, si rifiuta di crederci, pensa ad una forma di debolezza che andrebbe risolta autonomamente, senza rivolgersi a degli specialisti. I malati fisici protestano, si organizzano, chiedono risposte adeguate. Quelli psichici non fanno, perché non possono, niente di tutto questo. La loro unica voce è quella delle famiglie disperate o delle associazioni di volontariato impotenti. Sono come dei fantasmi, ultimissimi tra gli ultimi, i più reietti tra i dannati della terra, i nuovi lebbrosi nel mito della salute a tutti costi. Eppure sono, a ogni età, in consistente aumento. Per accorgerci di loro dobbiamo aspettare un suicidio o altri atti violenti?