Moby Prince, quei morti di casa nostra
di Franco Colomo

24 Gennaio 2018

9' di lettura

Nel pomeriggio di oggi, il senatore del Pd Silvio Lai ha illustrato il risultato della commissione d’inchiesta sul disastro del Moby Prince da lui presieduta.
Nell’occasione riproponiamo l’articolo pubblicato sulla vicenda dal nostro settimanale il 5 giugno 2016 con le parole di Tonino Congiu, fratello di Giuseppe, giovane carabiniere di Oliena vittima della tragedia nelle acque di Livorno.

È il pomeriggio di mercoledì 10 aprile 1991. Giuseppe Congiu lascia la caserma, è di stanza a Bologna, presso il quinto battaglione dei Carabinieri. Ha chiesto a dei colleghi di essere accompagnato a Livorno per imbarcarsi sul traghetto della Navarma diretto a Olbia, vuole rientrare con l’auto ma non può guidare per via di una gamba ingessata. Un collega parcheggia nel garage della nave. Gli amici si salutano. Poco prima di imbarcarsi, gettando, chissà, uno sguardo su quella grande balenottera blu disegnata sulla fiancata del Moby Prince, Giuseppe chiama casa, a Oliena: «Sto rientrando, venitemi a prendere a Olbia domani mattina».
Sulla nave ci sono altri due carabinieri, forse si incontrano, scambiano qualche parola. Per tanti sardi, militari, studenti, emigrati per lavoro, il traghetto è l’unico mezzo di collegamento con il continente. L’accento risuona tra i saloni e i corridoi del Moby, aria di casa già prima di solcare il mare.
In plancia c’è il comandante Ugo Chessa, tre minuti dopo le 22 inizia la manovra per l’uscita dal porto, alle 22.14 l’avvisatore marittimo Romeo Ricci segna l’orario di uscita del traghetto dal porto, il Moby supera la Vegliaia – diga dell’imboccatura sud del porto – con a bordo 75 passeggeri e 66 membri dell’equipaggio.
Alle 22.25 la prua del traghetto si infila nella fiancata destra della petroliera Agip Abruzzo della Snam alla fonda nella rada di Livorno, carica di greggio. Divampa un incendio che avvolge entrambe le navi, ed entrambe invocano assistenza. I soccorsi si concentrano sulla petroliera, il “May day” lanciato dal marconista del Moby resta inascoltato.
Così sarà per venticinque, lunghi, anni. Centoquaranta persone perdono la vita a bordo del traghetto, un solo superstite, il mozzo Alessio Bertrand, mentre i marittimi dell’Agip Abruzzo vengono tutti tratti in salvo. È la più grande tragedia della marineria civile italiana. Il giorno dopo sui giornali compaiono tre parole che sarà difficile cancellare dalla memoria collettiva: la nebbia, la partita in tv – si gioca la semifinale di Coppa delle coppe Barcellona – Juventus –, la disattenzione.
Tonino, il fratello di Giuseppe, raggiunge Livorno insieme al padre. Vengono accompagnati in un hangar del porto…
«Ci hanno portato in un capannone dove c’erano tutti i corpi carbonizzati, per il riconoscimento – ricorda Tonino. Mio fratello aveva ancora una parvenza di qualcosa, ma vicino c’erano mucchietti di carbone, non si capisce cosa dovevano riconoscere gli altri familiari. Giuseppe l’abbiamo riconosciuto per via del tutore che aveva nella gamba, vicino a lui c’erano alcuni effetti personali. Non lo volevano far imbarcare perché era infortunato, magari non l’avessero imbarcato…».
Giuseppe «era una persona in gamba – ricorda il fratello –, andavamo molto d’accordo, era disponibilissimo e affabile. Anche nel lavoro lo ricordano, abbiamo ricevuto tantissime manifestazioni di affetto. Voleva fare il Carabiniere ed era felice, l’Arma ci ha assistito subito, anche ospitandoci in caserma – prosegue – dandoci la massima disponibilità e sostenendoci in tutto».
Ai familiari delle vittime era stato detto che «c’era nebbia – racconta ancora Tonino ritornando a quel giorno – e che il comandante aveva sbagliato… tutte balle».
Da allora a oggi il percorso giudiziario non porta a nessuna verità soddisfacente. Dall’inchiesta sommaria della Capitaneria di Porto del 1991, a quella della Marina Mercantile nel 1993, dai processi di I e II grado celebrati a Livorno (1995-1997 e 1999), fino alla riapertura delle indagini nel 2006 concluse con la richiesta di archiviazione nel 2010 nessuno è colpevole, la responsabilità – come scrivono nelle loro conclusioni i Pubblici ministeri – è da far ricadere sul comando del Moby Prince e quindi su Ugo Chessa, perché «la apparente normalità delle condizioni – si legge nel documento – creava il tipico meccanismo psicologico di allentamento della attenzione nel personale di plancia e nel resto dell’equipaggio». Concausa del disastro il banco di nebbia nel quale era improvvisamente entrato il traghetto.
Tutto ciò nonostante in questi anni molteplici testimoni abbiano asserito che la nebbia quella sera non c’era. Una stessa richiesta giunta poco prima dell’arrivo dei soccorsi dall’Agip Abruzzo afferma: «Livorno ci vede, ci vede con gli occhi».
La nebbia avvolge nel più fitto mistero ciò che invece accade realmente il 10 aprile 1991 nelle acque di Livorno, incredibilmente trafficate quella notte. Vicino all’Agip Abruzzo e al Moby Prince ci sono almeno altre sette imbarcazioni che incrociano in rada, tre sono navi militarizzate americane adibite al carico e scarico di armi ed esplosivi – è appena terminata la prima guerra del Golfo – dalla vicina base militare di Camp Darby. Sul luogo della tragedia è forse anche la 21 Oktobar II, ufficialmente in banchina per riparazioni: è una delle navi donate dalla cooperazione italiana alla Somalia e al centro di una inchiesta su un traffico d’armi e di rifiuti tossici condotta dalla giornalista Rai Ilaria Alpi che verrà uccisa a Mogadiscio insieme al cineoperatore Miran Hrovatin il 20 marzo 1994.
«Nessuno ha mai chiesto i tracciati radar della base americana» – afferma Tonino Congiu, «è come un’altra Ustica».
Ma le stranezze non sono finite. Non è mai stata chiarita la reale posizione della petroliera che molto probabilmente si trovava nella zona di divieto di ancoraggio e pesca con la prua rivolta a sud – come lo stesso comandante Renato Superina comunica via radio – ragion per cui il Moby collide con la petroliera rientrando in porto. Perché il comandante Chessa aveva deciso quella manovra? Cosa lo aveva spinto a farlo? C’è poi il ritrovamento di tracce di esplosivo all’interno del traghetto, sembra essere il famigerato Semtex, quello delle stragi del treno Italicus e dell’attentato di via D’amelio a Palermo. Un filone di indagine mai approfondito. Altri punti oscuri riguardano i soccorsi, assolutamente inadeguati se non inesistenti, almeno per il traghetto, e il tempo di sopravvivenza a bordo. I periti degli inquirenti dicono non più di venti – trenta minuti, ignorando clamorosamente la realtà. Il superstite Alessio Betrand viene recuperato un’ora e mezza dopo la collisione, ha resistito appeso al parapetto della nave in attesa dei soccorsi. Ancora più sconvolgente è quanto si scopre al mattino: una ripresa aerea da un elicottero mostra alle 7.30 dell’11 aprile una persona ancora viva sul ponte, ci era arrivato con le proprie gambe. Quando la nave viene ancorata in porto quel corpo è totalmente carbonizzato. Nel garage, poi, i vigili del fuoco fotografano le impronte delle mani lasciate sulle auto, a significare che qualcuno ha cercato lì una via di fuga. Ancora, il barista della Moby recuperato in mare alle 10 del mattino non era morto a causa dell’incendio ma per annegamento, il suo orologio si era fermato alle 6.10, ora in cui presumibilmente si era gettato in acqua, otto ore dopo la collisione.
Per avere verità, almeno storica se non giudiziaria, i familiari delle vittime – a partire dai figli del comandante Ugo Chessa, Angelo e Luchino che hanno costituito l’associazione “10 aprile” e da Loris Rispoli, indomito leader dell’associazione “140” – non hanno mai smesso di lottare e hanno recentemente conquistato l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro. Istituita nel luglio 2015 ha cominciato a lavorare nel gennaio del 2016, la presiede Silvio Lai, senatore sardo esponente del Pd.
«C’è tanta rabbia – afferma anche Tonino Congiu –, dà fastidio che si nascondano le cose, era una tragedia enorme e si poteva fare molto da subito, senza rinviare. Abbiamo seguito la vicenda giudiziaria tramite il comitato dei familiari – aggiunge – da subito si capiva che si voleva nascondere qualcosa, il timone del traghetto manomesso, il superstite messo a tacere… Speriamo che ora qualcosa si sblocchi grazie alla Commissione d’inchiesta, si è lottato tanto per averla e almeno in questo si è riusciti. E ora non bisogna mollare. Non ci restituirà mio fratello ma magari la verità sì».
Anche se ricordare fa sempre male. «A casa ci sono tutte le cose di Giuseppe, ci sono le sue foto. Sono sempre in contatto con il comitato ma non sono più tornato a Livorno – confida Tonino – anche per non lasciare solo mio padre, cerco di evitare di parlarne, fa male, ho la tragedia stampata negli occhi e non la dimenticherò mai». E non bisogna dimenticare. Quei centoquaranta morti ci appartengono, abbiamo provato a raccontarne uno per ricordare tutti, le loro famiglie e il Paese hanno diritto a conoscere la verità. La coscienza civile ce lo impone.

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