8 Marzo 2023
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Prendetevi 7 minuti e andate a cercare sul web il corto del progetto Adamo2050 prodotto da Plasmon. Non si tratta di una trovata pubblicitaria, è una storia che arriva dal futuro – Adamo è l’ultimo bambino nato nell’Italia del 2050 – ma che ci serve come monito per il presente. Il nome lascia la porta aperta alla speranza ma occorre l’impegno di tutti, a partire dalla politica. Di recente pubblicazione è anche il volume Storia demografica d’Italia (Carocci, 2022) di Alessandro Rosina e Roberto Impacciatore. Un libro denso ma agile, capace di ripercorrere la storia del Paese dall’Unità a oggi alla luce dei mutamenti demografici, il che significa tracciarne allo stesso tempo quelli politici, sociologici e di costume. Il finale però è aperto, nonostante l‘inverno demografico e i processi di degiovanimento nei quali siamo caduti gli autori ritengono che il Paese abbia ancora «potenzialità per una spinta in avanti in presenza di una direzione chiara e strumenti adeguati».
Dice Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e Coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani dell’Istituto G. Toniolo: «La politica ha un ruolo centrale nella direzione da dare al Paese orientando le politiche di sviluppo. C’è riuscita nei primi decenni del Secondo dopoguerra, contando però anche su tutta una società che aveva voglia di iniziare una fase nuova, oltre che su una struttura demografica molto più favorevole, soprattutto con molti più giovani. Raggiunti livelli di benessere ampio per il ceto medio questa spinta si è però ridotta. È cresciuto il timore di perdere il benessere raggiunto e si è preferito proteggere in difesa quanto acquisito anziché investire sulla capacità di generare nuovo benessere con le nuove generazioni e nuovi spazi per la partecipazione femminile al mondo del lavoro».
Giovani, donne, immigrati: la nostra storia dimostra come possano ridiventare il motore di un cambiamento. Professor Rosina, cosa ci manca per adeguarci alle scelte di altri Paesi in questa direzione?
«Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. La natalità non può aumentare se non migliora tutta la transizione scuola-lavoro e se non aumentano le opportunità di valorizzazione del capitale umano dei giovani nel mondo del lavoro. D’altro canto, i giovani che conquistano nei tempi e modi adeguati l’autonomia e formano una propria famiglia tendono ad essere più impegnati e responsabilizzati verso un ruolo sociale attivo. Politiche a supporto di tali scelte hanno quindi ricadute sia sulla vitalità demografica che sul dinamismo sociale ed economico.Allo stesso modo la natalità non può aumentare in modo solido se rimane bassa l’occupazione femminile e viceversa. Le politiche che armonizzano tempi di lavoro e responsabilità familiari consentono a chi ha figli di poter avere un impiego e a chi ha un impiego di non rinunciare ad avere figli. Detto in altri termini, aumento delle nascite, dell’occupazione giovanile e della partecipazione femminile, assieme ad una immigrazione con possibilità di adeguata integrazione, convergono in modo coerente verso lo scenario più alto, rafforzando le condizioni di sviluppo inclusivo e sostenibile. Viceversa, la depressione ulteriore delle nascite si associa anche a persistenti difficoltà dei giovani a formare una propria famiglia, a bassa conciliazione delle coppie tra famiglia e lavoro, a rischio di povertà delle famiglie con figli».
I primi Trent’anni dell’Italia repubblicana appaiono come una stagione irripetibile, forse perché davvero ci si preoccupava più delle generazioni future che non (solo) delle scadenze elettorali. Come è stato possibile sciupare quella stagione?
«L’Italia, come raccontiamo nel libro, appare un paese portato a cercare un equilibrio e poi mantenerlo il più possibile. Anziché rimettersi continuamente in discussione rispetto al mondo che cambia, cerca di resistere finché non si produce una discontinuità che rompe l’equilibrio precedente e mette nelle condizioni di iniziare una nuova fase. Questo è avvenuto in negativo con la Grande Guerra e in positivo con il secondo conflitto mondiale. La discontinuità prodotta dalla Pandemia presenta alcuni aspetti positivi che la accomunano a quella prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale, come la necessità di costruire una nuova infrastruttura sociale del paese in analogia con l’infrastruttura materiale distrutta allora dal conflitto, con corrispondenti risorse adeguate (allora il Piano Marshall, oggi i fondi Next Generation Eu). La differenza, oltre a nuove incertezze legate a crisi geopolitiche, sta nelle diverse condizioni per alimentare la nuova fase di sviluppo. Nel passato, compresi i Trenta gloriosi, la crescita economica era alimentata da una ampia base demografica che dava spinta e dinamismo alla forza lavoro e ai processi di sviluppo. Oggi, in modo del tutto inedito, quelle condizioni non ci sono più. Va trovato un modo nuovo di garantire sostenibilità sociale e produzione di benessere non solo con una popolazione anziana in aumento, ma con una diminuzione strutturale della popolazione in età lavorativa, ovvero la componente che crea ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare. Non abbiamo ancora a livello politico e di dibattito pubblico la consapevolezza di essere entrati in questa fase nuova».
Come giudica la riforma che passa sotto il nome di Family Act? Anche il recente spot della Plasmon può aiutare a riportare il tema della natalità al centro del dibattito ma certo è difficile fino a quando i figli saranno considerati un problema esclusivo delle famiglie e non un bene collettivo.
«Mettere le nuove generazioni nelle condizioni di generare valore con le loro scelte, facendole diventare esperienze positive, è l’impegno principale che una comunità dovrebbe avere. Avere un figlio è parte dei progetti di vita che in grande maggioranza i giovani vorrebbero realizzare, ma è sempre meno una scelta scontata. Servono quindi strumenti e servizi che aiutino a sbloccare tale scelta, a superare le condizioni oggettive di difficoltà del presente e l’incertezza nei confronti del futuro. La carenza di politiche solide ed efficaci va a rafforzare l’idea che avere un figlio non è considerato un bene collettivo su cui tutta la società investe, ma soprattutto un costo privato a carico dei genitori. La combinazione tra basso valore collettivo assegnato a tale scelta e contesto generale di incertezza, non porta a smettere di desiderare di avere un figlio ma, piuttosto, a lasciare sospesa la decisione, intanto però il tempo passa e ci si trova implicitamente con una rinuncia. Con il Family Act l’Italia è finalmente passata da politiche familiari costituite da un insieme di misure frammentate ed estemporanee (quindi spesso anche inique e inefficienti), a un pacchetto coerente e integrato. Il primo strumento messo in campo è l’Assegno unico e universale approvato in modo unanime dal Parlamento. Al di là dei singoli contenuti – che possono essere rivisti e migliorati – la combinazione tra impostazione sistemica e consenso ampio oltre gli schieramenti politici, costituisce una novità importante che aiuta a porre le politiche familiari al centro degli interessi generali del paese. Ma oltre all’impianto serve ora soprattutto una realizzazione piena, urgente ed efficace. Non basta però solo l’azione della politica, serve tutto un paese che va nella stessa direzione, contribuendo a favorire un cambiamento culturale che rafforza anche il consenso verso le politiche necessarie. Da questo punto di vista l’azione della società civile e del mondo imprenditoriale è cruciale».