20 Ottobre 2022
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La missionarietà, nella fede cristiana, nel cuore del semplice cristiano, non è un elemento aggiunto, un compito delegato a taluni, bensì un fattore costitutivo, essenziale. Essa nasce dalla gratitudine dell’essere figli di Dio. Un po’ come accade nelle nostre famiglie: dalla gratitudine verso i genitori si sviluppa la testimonianza del bene ricevuto ed il desiderio di condividerlo. È una cosa, direi, naturale non un progetto o un precetto morale. Il missionario, ossia il cristiano, è un testimone di Cristo: rende presente nel mondo, con i vicini ed i lontani, la certezza vissuta, l’esperienza di una salvezza in atto.
È innanzitutto un essere non un fare. La fede non si comunica per costrizione, ma per “attrazione”. L’annuncio evangelico è frutto di appartenenza non di militanza (seppure buona). Il militante cerca l’assenso, il proselitismo, l’aggregazione, pensa di essere lui la verità. Il testimone non è la verità.
La verità non è lui, né tutto il suo sapere, né la sua bontà: è una forza, una grazia non creata da lui e dalla quale trae la gioia di vivere. C’è una distanza genetica che separa l’annuncio del Vangelo da ogni forma di proselitismo culturale, politico o religioso.
Non si può testimoniare ciò che non si ama.
Il missionario non è un manager, un brillante conferenziere, un instancabile organizzatore: è un uomo con in cuore lo stupore di essere amato ed amare Dio, di stare alla presenza di Dio e lasciarsi guardare da Lui. Testimonia e vive il Vangelo nel proprio quotidiano, nella vita di tutti i giorni: in famiglia, sul luogo di lavoro e con chi ci è più prossimo. Ogni giorno, costantemente e con perseveranza. Con la fede che si fa operosa per mezzo della carità.
La gratitudine dalla quale nasce la missionarietà non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa. L’esempio grandioso di questo lo si trova in San Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi di quei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…». Il desiderio del missionario è di comunicare che Dio è mio amico e che Lui stesso è amicizia. Non a caso il più grande missionario in Cina, Matteo Ricci, scrisse nel 1596 il suo primo trattato in mandarino e lo intitolò Dell’amicizia. Riteneva infatti che l’amicizia era al tempo stesso il contenuto del suo annuncio e il metodo. Amicizia come la stoffa dell’essere, ciò di cui è fatta la realtà; condivisione gratuita della vita dell’altro fino a essere disposti a dare la vita per lui. Non per una ragione morale, ma per la gratitudine e lo stupore di sentirsi amati. Il vertice dell’amore, dice Gesù, è l’amicizia intesa come dono gratuito e totale di sé.
Il missionario è il testimone di questa gratuità che incontra il bisogno dell’altra persona.