15 Febbraio 2023
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Sparlatene pure basta che ne parliate, sembra essere questo lo slogan che accompagna sottotraccia il festival di Sanremo. Eppure: «Non disprezzate la musica popolare. (…) Il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società. Il ritornello che un orecchio fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite di cui fu ispirazione, la consolazione sempre pronta, la grazia, l’idea» (M. Proust). Un tempo, per questo evento-tormentone si parlava di un pastone di cultura nazional-popolare. Oggi manca l’identità e anche la tradizione popolare. Di popolare, inteso nella sua versione nobile, non c’è proprio un bel nulla. Anzi c’è il suo opposto: l’autocelebrazione delle élites che pretendono di addomesticare ed indottrinare le masse; l’arroganza di un potere finanziario, mediatico, e transnazionale convinto di poter manipolare a piacimento corpi e coscienze.
Già mesi prima inizia lo stillicidio: notizie vere, indiscrezioni, qualche frottola. E arriva febbraio, lo spettacolo è un dosaggio tra politicamente corretto e trasgressione alla Pierino. Le prime file dell’Ariston sono abitate da gente di potere, botulino e dentiere, amanti senza fissa dimora e sgallettate senza arte né parte. Gender e transgender, manipolazione genetica ed etica. Stampa corriva e marchette da poco, per meno di trenta danari si scrive di tutto e il contrario di tutto. La noia delle élites servita quale dopocena al popolo, il quale crede di avere potere perché può sfottere coi meme sui social e le battute da bar. Non manca la solita polemica politica, puntualmente rivolta contro chi non è sinistrato. Arriva il comico spompo, un tempo trasgressivo ora ammansito da cachet sostanziosi, rifila il solito sermone, invero ben costruito, ma in alcuni passaggi inutilmente retorico.
Si mettono sotto contratto presentatrici più o meno improvvisate: coi loro micidiali pipponi farebbero diventare razzista anche San Francesco. Vengono riesumate vecchie glorie: il passato, riverniciato con la sua nostalgia canaglia, imbroglia il presente con lacrime di rimpianto. Vengono risvegliati esperti che imperversano nel palinsesto della Rai dispensando perle di stucchevole ovvietà. Il palcoscenico è un tripudio di “pervestiti” (così qualcuno ha definito cantanti e relativo codazzo abbigliati con le fantasie più stravaganti), ci fosse un tribunale del buongusto alcuni sarebbero condannati senza attenuanti generiche. Rimbomba l’Ucraina e trema la Turchia, si piange per le pene del mondo a favore di telecamera: è vero che nessuno ha spalle così larghe per caricarsi anche i dolori altrui ma tra l’ipocrisia e il menefreghismo ci dovrà pur essere una via di mezzo. Si bestemmia per l’audio e si derubrica l’offesa ai credenti a escandescenze da stress. Non tutto il male, ovvio, viene da Sanremo, il quale è cartapesta, fuoco fatuo, un intervallo tra bollette e cartelle. Cala il sipario, fra fiori appassiti e altri scalciati. Chi ha vinto? Non interessa nessuno. Per alcuni l’importante non è partecipare ma essere dimenticati. Perché in fondo Sanremo è Sanremo, specchio della nostra vanità e delle nostre illusioni, il nostro gay pride televisivo.