16 Giugno 2022
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Le elezioni amministrative, seppure riguardanti in Italia appena 818 comuni e 9 milioni di elettori, certificano che il partito di maggioranza relativa è quello degli astensionisti. Alle urne si è recato il 54% degli aventi diritto. Il numero di chi non va a votare aumenta di consultazione in consultazione. E dire che le comunali sono le elezioni più sentite, più coinvolgenti. I cittadini si sentono maggiormente coinvolti perché sentono di poter scegliere direttamente il proprio sindaco. Domenica non è stato così. La percentuale di aventi diritto che non si sono recati ai seggi è del 46% con punte del 55% in Liguria e Molise. Anche questo è più di un indizio sull’agonia della nostra democrazia.
Stavolta non c’era il rischio di Covid e quindi non si può imputare alla pandemia il crollo in termini di affluenza. Il vero malato non è l’elettore ma la politica in forte crisi di legittimazione, a prescindere dal colore dei partiti. Con l’espediente delle liste civiche si pensava di aver arginato il problema ma così non è. Se i referendum hanno registrato un flop storico, ossia la più bassa affluenza alle urne (appena il 20% circa), le amministrative non sono da meno. Entrambe le consultazioni hanno a che fare con la democrazia diretta ed è qui che si annida la crisi. Abitualmente si attribuisce la colpa ai politici ma è un ragionamento semplicistico. Ci sono tanti sindaci che sono dei martiri, sempre in bilico tra le richieste dei cittadini, normative ambigue, precarietà di risorse e rischi giudiziari. Specie nei piccoli centri non è facile trovare persone di spessore disposte a mettere a repentaglio il loro lavoro e la carriera per amministrare la miseria e finire puntualmente incompresi e bastonati. Da qui la scelta tra un commissario prefettizio, candidati di dubbie capacità e successioni dinastiche. Tre opzioni nefaste ma paradossalmente favorite dall’astensionismo.
In ogni caso manca il kennediano “non chiederti cosa possa fare il tuo Paese per te ma cosa possa fare tu per il tuo Paese”.
L’irrompere dell’individualismo spinto al parossismo rende arduo interessarsi del bene comune, della cosa pubblica, della partecipazione democratica. Rende impossibile una cultura politica, ossia l’arte di coniugare e portare a sintesi interessi contrastanti. Rivela tutta la debolezza delle cosiddette liste civiche che altro non sono se non una sommatoria di candidati diffidenti uno dell’altro e concentrati su un loro interesse personale. Possono funzionare per raggiungere un obiettivo preciso ma non per amministrare nel tempo una comunità. Hanno respiro ed orizzonti troppo corti. Qualsiasi tipo di governo basato su una infinità di sigle (che poi sono personalismi tinti di politica) è destinato alla dissoluzione. Infine una considerazione terra terra. Non hanno senso le lamentazioni verso chi ci amministra se da parte nostra non c’è il coraggio di assumerci una responsabilità civica. Sindaci ed assessori comunali (ma anche in Regione, a Roma o Bruxelles) non vengono eletti dai marziani ma da cittadini in carne ed ossa. I quali, se hanno sbagliato scelta o sono insoddisfatti dei loro beniamini, hanno un’arma per rimediare: andare alle urne, non astenersi.