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L’Ortobene
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
La solennità dell’Ascensione del Signore è preludio dell’effusione sulla Chiesa del dono dello Spirito Santo, che celebreremo nel giorno di Pentecoste. Il salmo liturgico invita a cantare inni a Dio, in un clima di gioia e di festa, per celebrare la maestà di Dio e la sua regalità, perché il suo regno d’amore si estende a tutti i popoli.
La solennità dell’Ascensione infatti di essere considerata un “addio” di Gesù all’umanità, Il Signore Risorto, che sale glorioso alla destra del Padre, sembra distaccarsi dall’umanità per ritornare nel cielo. È un sentimento che ha attraversato anche il cuore dei discepoli, che fissano nostalgici lo sguardo verso il cielo, finché non sarà la voce degli angeli a richiamarli alla testimonianza e ad assicurarli del ritorno altrettanto glorioso del Signore alla parusia.
Non possiamo però passare sotto silenzio il dato fondamentale dell’Ascensione: Gesù sale sì al cielo, ma vi sale con il suo Corpo glorioso. L’intuizione dei Padri è che nel momento dell’Ascensione l’umanità intera – e quindi ognuno di noi – è collocata in Gesù e attraverso di Lui, alla destra del Padre.
Luca ha due racconti dell’Ascensione: uno lo colloca a conclusione del Vangelo, mentre l’altro lo inserisce proprio all’inizio del libro degli Atti. Dopo i quaranta giorni segnati dalle numerose apparizioni del Risorto ai discepoli, in cui Gesù ha annunciato “le cose riguardanti il regno di Dio”, è il Signore stesso ad esortare i discepoli a non allontanarsi da Gerusalemme e ad attendere il compimento della promessa del dono dello Spirito, il “battesimo di fuoco”. Sarà lo Spirito Santo a riempire e trasformare il cuore degli Apostoli perché possano iniziare la missione della predicazione e dell’annuncio. Al termine del mandato missionario, Gesù viene sottratto allo sguardo dei discepoli da una nube ed è elevato fino in cielo. Il loro fissare il cielo è scosso dalla parola degli angeli, quasi a metterci in guardia dal pericolo di vivere disincarnati, ricordandoci che camminiamo sulla terra, vero luogo dell’annuncio.
Nelle parole di Paolo agli Efesini, possiamo considerare due aspetti. Da una parte l’invocazione, affinché lo Spirito Santo ci guidi ad una piena conoscenza del Signore, per comprendere a quale speranza siamo chiamati. Sono parole densissime, che ci conducono a riconoscere la straordinaria vocazione del cristiano. La mentalità del mondo considera spesso i cristiani degli sventurati, che si aggrappano ad una speranza vana, ad una divinità che sarebbe in realtà una costruzione mentale, una proiezione delle nostre paure, in modo da costruirci un mondo virtuale per poter vivere meglio. Paolo ci ricorda esattamente il contrario. Non si tratta di creare da noi stessi un mondo in cui rifugiarci, ma di accogliere l’amicizia di Dio, donataci gratuitamente.
In secondo luogo, Paolo ci conferma che ogni cosa è sottomessa al Signore, che vittorioso regna sull’universo intero. Egli siede alla destra di Dio nei cieli, «sopra ogni principato e potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione, e di ogni nome che viene nominato». La potenza di Dio è il pegno della sua vittoria, a cui noi tutti siamo associati. «Il braccio di Dio non si è accorciato», leggiamo nel Deuteronomio.
Il Vangelo ci propone le ultime parole del Vangelo di Matteo. È un momento speciale, carico di emozioni contrastanti. Da una parte, infatti, i discepoli compiono un gesto di adorazione “a distanza”, riconoscendo la sua Maestà; dall’altra, la serpeggiante presenza del dubbio. È Gesù che si avvicina a loro per rincuorarli, e renderli certi della sua identità ed ella sua signoria. Riconoscere la signoria di Cristo non è nostra conquista, ma è dono gratuito di rivelazione. Qui si inserisce il mandato missionario: «andate, fate discepoli, battezzate». La presenza di Gesù non verrà mai meno. Non è una semplice promessa, ma Parola vera, solida realtà, incrollabile consolazione.