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Francesco Mariani
Ogni volta che nel Vangelo di Giovanni Gesù pronuncia le parole «Io-sono», sia in forma assoluta oppure accompagnate da una qualificazione, il riferimento è all’episodio del “roveto ardente”, dove Dio rivela a Mosè il suo “Nome”. Gesù è il “nuovo roveto”, la Presenza nuova e definitiva di Dio nella storia, Presenza di amore totale e incessante. L’icona del “buon pastore”, esprime questo amore che si dona: il buon pastore, infatti, «offre la sua vita per le pecore».
Già nella prima lettura, Pietro, ricorda a tutti noi una verità fondamentale e incontrovertibile: la salvezza si può trovare solo in Gesù. All’uomo di oggi, illuso dalla propria autosufficienza, è difficile parlare di salvezza. Eppure, il non senso, i sensi di colpa, l’ansia di dover affrontare da soli tutte le difficoltà, il nostro incessante bisogno di amore, possono trovare una risposta solo in Cristo. È questo il messaggio forte di Pietro: solo Gesù Cristo può colmare l’esistenza di un uomo. Questa Parola ci fa comprendere che il “grande peccato” è costituito dal rifiuto di Gesù come Signore e salvatore, perché possiamo accogliere l’invito alla conversione e al dono della nuova vita.
Nella seconda lettura è ancora Pietro a riprendere l’immagine del pastore: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime». Ciò che colpisce, è il “modo” con cui Gesù ha esercitato ed esercita questa funzione pastorale. Pietro pone queste parole a conclusione di un piccolo “inno” che è incentrato su tre figure bibliche molto forti ed eloquenti: l’Agnello pasquale, il Servo sofferente e il capro espiatorio, usato nella liturgia dell’espiazione.
Rivolgere lo sguardo al Cristo sofferente conduce ogni il discepolo ad accogliere progressivamente la sofferenza come evento carico di fecondità. Gesù ha portato nel suo corpo i nostri peccati, le sue piaghe ci hanno guarito. Gesù è davvero il buon pastore, e si dimostra tale soprattutto nei momenti in cui offre la vita per la nostra liberazione.
Nel Vangelo, la contrapposizione tra la figura del mercenario e quella del “buon pastore” ci fa capire che Gesù non fugge dinanzi ai pericoli. Il mercenario abbandona le pecore al lupo, per la sua viltà e soprattutto perché tra lui e le pecore non c’è vera relazione. Il pastore invece, offre la vita per la difesa e l’unità del gregge. Il rapporto tra il pastore e il gregge ha come obiettivo la reciproca conoscenza, che il gregge esprime nell’ascolto della Parola, nella fede e nella sequela. Lo sguardo, poi, si allarga anche a coloro che ancora non appartengono all’ovile, ma che non sono abbandonati a loro stessi, ma guidati con la stessa premura e lo stesso amore dal “buon pastore”.
Il Vangelo poi, attribuisce al pastore alcune azioni: chiama le pecore per nome, le conduce, cammina davanti ad esse. Esse esprimono chiaramente tutta la premura e tutto l’amore che il pastore ha nei confronti di ciascuna delle pecore del suo gregge, tutte per Lui ugualmente preziose. Alle pecore invece, è attribuita una fondamentale azione: seguono il pastore. È il verbo del discepolato, non dell’imitazione, ma della conformazione.
«Io sono la porta delle pecore» ci annuncia Gesù. Se uno passa attraverso questa porta acquista la vera libertà ed entra nell’abbondanza dei doni di Dio, e soprattutto il dono della vita autentica, che Gesù è venuto ad offrirci. Passare attraverso Gesù è condizione necessaria per entrare nella nuova comunione col Padre.
Offrire la vita per il gregge non è un semplice ideale, né utopia, né una possibilità lasciata alla “devozione” e allo “zelo” dei singoli, ma una necessità che si impone, se si vuole cercare insieme la conoscenza e l’esperienza dell’amore di Dio. Conoscere, biblicamente, significa entrare in un rapporto d’amore personale ed esistenziale. Gesù solo è il “buon pastore”. Ma siamo tutti chiamati a riprodurre nelle nostre relazioni quotidiane la premura del pastore che dona la vita per il prossimo.