Parole in movimento, a proposito di scuola
Un piccolo repertorio lessicale che racchiude una serie di termini attinenti al mondo della scuola
di III C Liceo Classico Nuoro
7' di lettura
12 Novembre 2024

Attraverso questo contributo intendiamo offrire alla attenzione dei lettori un piccolo repertorio lessicale che racchiude una serie di termini attinenti al mondo della scuola. Sono parole che usiamo molto spesso, e non sempre abbiamo consapevolezza del loro autentico valore. La ricerca etimologica riconduce queste parole ad una origine classica e ci fa comprendere la loro importanza ed il loro peso. Non possiamo non iniziare allora proprio dal termine scuola: deriva dal latino “schŏla” e dal greco σχολή (scholè), in origine significava tempo libero, libero e non vuoto, perchè dall’infanzia all’università il mondo della scuola matura la coscienza e spalanca ad una vita autentica, priva di pregiudizi e ignoranza. In pratica un piacevole uso delle proprie competenze e dei propri saperi, che poi è diventata la scuola dei giorni nostri. Per studiare occorre sicuramente un buon metodo di lavoro: metodo è un termine che deriva dal latino “methodus” cioè ricerca, indagine, investigazione.  In uno dei tanti significati può voler dire quel procedimento utilizzato per poter raggiungere un determinato scopo, una conclusione procedendo con regolarità. Si può parlare di metodo principalmente nell’ambito del lavoro, in ambito scolastico ma anche filosofico, storico, matematico. Ad esempio nell’ambito della filosofia il metodo si avvale dell’incalzare di domande per poter arrivare a una determinata soluzione di senso compiuto. Ma la parola metodo deriva anche dal greco: il prefisso metà (che include l’idea del perseguire) e odòs cioè “via”, in poche parole via per raggiungere un determinato luogo o scopo, in ambito culturale attraverso la guida degli insegnanti. La parola insegnante è il participio presente del verbo insegnare. Questo verbo deriva dal latino insignare, che a sua volta è composto da in e signare, e significa imprimere, lasciare un segno, come gli antichi che per scrivere incidevano appunto sulle tavolette di argilla. Infatti il ruolo dell’insegnante è proprio quello di imprimere segni nella mente degli allievi, quindi formare ed educare l’alunno, raggiungendo il suo cuore, ossia in modo tale da appassionare ed intrigare, appunto per lasciare un segno nell’allievo, che non riguarda solo l’ambito scolastico, ma che lo studente si porterà dietro a vita e che influenzerà il suo modo di vedere il mondo.  Perciò il ruolo degli insegnanti che gli alunni incontrano nel corso della vita è cruciale e non si conclude mai all’interno delle mura scolastiche. Certo dovremmo imparare a riconoscere a questa figura l’importanza che ha avuto e che ha nella vita di tutti noi nel condurci ad imparare.

La parola italiana imparare deriva dalla forma del latino parlato imparāre, che, propriamente, significava ‘acquistare’ e risultava composta del prefisso rafforzativo in– e del verbo parāre ‘procurare’. Il verbo ‘imparare’ denota in un certo senso l’acquisizione di una conoscenza. Etimologicamente, imparare significa procurarsi qualcosa, ma presenta una grande la versatilità. Imparando, ci si procaccia una risorsa, che può consistere in un sapere, in un’abilità, o in un comportamento, significa mettersi in grado di saper fare qualcosa.

L’imparare è qualcosa di più concreto perché ogni nuova conoscenza diventa propria, attraverso i libri (come ad esempio le antologie, parola che deriva dal geco “anthos” che vuol dire “fiore” e da “lego” che significa “scelgo”. Assume quindi il significato di “scelta di fiori” perché raccoglie una selezione di testi). Tuttavia nell’uso popolare imparare vuol dire sia insegnare che imparare, come se non ci fosse differenza fra le due cose. È una confusione però anche sensata, infatti insegnando io imparo e gli studenti imparando insegnano, come se il dare e il ricevere le forme del sapere facessero parte della stessa azione, dello stesso ciclo. “So tutto, ma solo quando imparo”.

Ed è più efficace l’apprendimento se avviene in compagnia: questo è lo stare insieme in un clima di condivisione; da companio, che in latino significa “colui che mangia il pane insieme”.
Nella generalità del termine, “compagnia” significa stare vicino a qualcun altro, ma ricercando il senso più profondo della parola, ci si accorge che non è solo la condizione di mera prossimità a un’altra persona: l’etimologia ci racconta che alla base di questa parola c’è la condivisione, inizialmente nella dinamica di un pasto, più avanti nella vita di tutti i giorni, anche a scuola. Oggi potremo tradurre compagno con “colui che condivide il pane”; questa espressione è significativa, perché la condivisione del pane evidenzia la volontà di mettere a disposizione dell’altro il bene più prezioso (il pane) anticamente necessario per garantire la sopravvivenza. È simile a commilitone e a camerata ma questi due termini tuttora conservano la loro sfumatura originaria legata alla vita militare. Compagno invece ha avuto la fortuna di venire accolto in vari campi semantici e quello relativo alla scuola è forse il più conosciuto. L’esperienza scolastica rende necessaria la convivenza e la relazione con i nostri simili e i nostri superiori, significa condividere la nostra quotidianità e ci spinge al confronto con chi la pensa diversamente da noi: è la compagnia a permetterci di uscire dai limiti del nostro pensiero. Ci regala la misura con cui capire il mondo, a partire dalla nostra classe, ci permette di far parte delle emozioni degli altri e di rendere gli altri partecipi del nostro mondo.

La classe è una piccola comunità dove non ci si sceglie e dove si condivide uno spazio ristretto per buona parte della giornata. Per questo è bellissimo quando si diventa compagni, quando ci si sente compagni: non più ospiti in uno spazio, ma membri di una fraternità dove poter condividere il proprio pane, i cui ingredienti sono: attenzioni, rispetto, buonumore, aiuto, attenzione allo sguardo dell’altro al fine di comunicare. Il termine fa riferimento all’atto di guardare, ossia rivolgere uno sguardo per interesse o evitarlo per timidezza, pudore o consapevolezza di colpa. Comprende anche l’atto di guardare chi ci guarda, “ricambiare lo sguardo”. Si intende anche il modo di guardare, l’espressione degli occhi che manifesta un sentimento e, soprattutto, favorisce la comunicazione. È, inoltre, capacità visiva: “fin dove arriva lo sguardo e gli occhi.” L’esercizio della facoltà di guardare é strumento di espressione emotiva e di connessione sociale, fondamentale per stabilire un contatto, con una duplice valenza: creare una connessione di natura positiva, accogliente e stimolante o, al contrario, una barriera emotiva che impedisca un travalico, una relazione, una qualunque forma di unione. Un termine di grandissima importanza nell’ambito delle relazioni che a scuola si intrecciano tra compagni e con gli insegnanti, per fare in modo che la scuola sia una autentica forma di comunità finalizzata alla formazione.


A cura degli alunni della classe III C del Liceo Classico “G. Asproni” di Nuoro
Margherita Baragliu, Claudia Beccu, Rosalia Bruno, Teresa Cerullo, Cristiano Castangia, Eleonora Cottu, Sofia Cucca, Giada Deiana, Mariantonia Podda, Greta Vitzizzai
Coordinamento didattico: Venturella Frogheri

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