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È da considerare tra i migliori inviati speciali In Barbagia. Angelo Del Boca (Novara 23 maggio 1925 – Torino 6 luglio 2021) partigiano, giornalista, storico autodidatta non per questo meno autentico.
Diversi anni fa, Indro Montanelli polemizzava con Angelo Del Boca che gli rammentava gli orrori della colonizzazione italiana in Africa Orientale, in era fascista. Montanelli era stato soldato negli eserciti del duce comandati dal maresciallo Graziani che fecero terra bruciata in Libia, Abissinia, Eritrea, Somalia, e negava l’uso dei gas da parte delle truppe italiane. Del Boca pubblicò tutto quello che doveva essere pubblicato, atti governativi e ordini perentori, legittimazioni di genocidio. Migliaia e migliaia di fogli tra cartoline postali, dai soldati inviate a casa, che ritraevano impiccati, teste tagliate, gente gasata, bambine vendute come spose, violenza estrema contro gli indigeni, gli italiani invece sorridenti, compiaciuti e compiacenti al male. E quello, Montanelli, davvero un cattivo maestro, continuava a negare l’evidenza, a mentire.
Nel gennaio del 1967, Angelo Del Boca, fu inviato in Barbagia dal quotidiano “Avvenire d’Italia” che poi diventerà “Avvenire”, il giornale della Cei. Significativo il motto riportato allora in testata: Quae sunt Caesaris Caesari. Quae sunt Dei Deo. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.
Tra il 6 e il 17 del primo mese di quell’anno, Angelo Del Boca pubblicò nel giornale di cui era inviato un’inchiesta in 5 puntate, tutti gli articoli a pagina 4, in più colonne, i primi tre in corsivo.
A 57 anni di distanza quell’inchiesta tiene tutta, rende noi sardi ancora ammirati per il racconto di una storia che altri, non sardo, scrive compartecipe. Angelo Del Boca, allora quarantaduenne, è nel tempo storico come globalità e come particulare barbaricino. Mette insieme conoscenza e capacità di scandaglio linguistico, la lingua sarda, con qualche errore di stampa, fatta cosa propria, la cronaca senza cedimenti ad alcun immaginario, il pathos che riesce a dare l’essenziale.
Il globale lo evidenzia la prima pagina del giornale di quel 6 gennaio, festa dell’Epifania: la guerra del Vietnam, il nord Italia nella morsa del freddo, Willy Brandt che conferma l’adesione di Bonn al «vertice europeo», una memoria di Mao estromesso da capo dello Stato nel 1958. Nel particulare, l’articolo di Del Boca, da Ollolai, così titola: Al «male antico» della Sardegna si pensa solo dopo le stragi. In Barbagia i banditi continuano a uccidere. Il male antico è il banditismo. A Ollolai c’era stato un triplice omicidio nella notte di San Silvestro e quel fatto di sangue, in un paese che sembrava fuori dalla cerchia della zona calda (Orgosolo Fonni Orotelli Orune per Del Boca), Nuoro come centro, fu il motivo per cui molti giornalisti arrivarono in Sardegna. Così inizia l’inviato di “Avvenire d’Italia”: «Nella piccola chiesa di Ollolai, dipinta semplicemente con la calce, padre Giuseppe Argiolas sta officiando una messa in suffragio per il piccolo Michele, una delle tre vittime della strage». Solo donne dentro la chiesa, con in testa il «micadore» viola. Gli uomini sono lontani, nella Valle del Tirso, leggi piana di Ottana, verso Porto Torres, con le loro greggi in transumanza verso l’Oristanese.
Le «disamistades» sono vive dentro l’industrializzazione. Queste le cifre del male antico riguardanti l’anno appena passato: quarantuno omicidi, sette tentati omicidi, dieci sequestri di persona, 150 milioni estorti, sedici rapine a mano armata, 139 banditi alla macchia.
A contrasto, Del Boca riporta quel che chiedono i sardi, anche i barbaricini che vivono la Barbagia fuori dalla logica del banditismo: che venga finalmente attuato il piano di Rinascita, «barricate della speranza contro la violenza del banditismo», cantieri di lavoro, opere di bonifica e trasformazione agraria, centri di sviluppo industriale, nuove vie di comunicazione. La risposta dello Stato è in perfetto stile coloniale: un corpo di spedizione, in completo assetto di guerra, di 600 agenti della «Celere» di Padova. Inizia il tempo dei baschi blu, comente zilipirches dicevamo.
Gli articoli a seguire dicono che Il braccio di ferro tra Stato e banditi non risolve il «male antico» dei sardi. Il banditismo non smette. «Morto Stocchino è venuto fuori Pradicheddu», come un libro genealogico sino Mesina, Campana, Cherchi. Del Boca ha il polso della situazione. Sa cosa significano «solu che fera», in un «mondo poverissimo, lunare», «furat chie furat in domo» o «venit dae su mare», «si unu offennet est lozicu» che offenda a sua volta, «menzus mortu che in galera».
Compagni di viaggio di Del Boca sono i poeti, pastori e di sentire operaio, l’ozierese Tonino Ledda e soprattutto Antonio Sini della Terra che non ride. Dell’inchiesta di Del Boca in quel gennaio 1967 continueremo a dire nel terzo pezzo della pentalogia sugli inviati speciali in Barbagia. (Continua)
Sono la cifra di Angelo Del Boca, uno dei migliori inviati in Barbagia negli anni che «la società del malessere», così Peppino Fiori, aveva preso il sopravvento. L’inchiesta di Del Boca venne pubblicata in cinque parti su L’Avvenire d’Italia dal 6 al 17 gennaio 1967, tutti gli articoli a pagina 4.
Significativa la sequenza dei titoli: «Al “male antico” della Sardegna si risponde soltanto dopo le stragi». Il riferimento è alla strage di capodanno a Ollolai, tra gli uccisi un bambino. «Il braccio di ferro tra Stato e banditi non risolve il “male antico» dei sardi”». Cosa sia questo male antico lo dice bene il sommario del secondo pezzo, da Nuoro: «Non sono servite in passato le forche degli antichi governatori e le leggi speciali del fascismo. Oggi non bastano le misure di sicurezza se non sono integrate da un piano che trasformi le strutture socio-economiche della regione. Intanto il banditismo sta cambiando in peggio: ora non osserva più nemmeno il “suo codice”». Dei rimanenti tre articoli il primo è da Orune, «in Barbagia la capitale sarda dell’abigeato» dove nella «bettola delle ricompense» i pastori ritrovano le loro pecore. Esplica il sommario: «Gli innumerevoli furti di bestiame che avvengono nella regione sono provocati dalla miseria, dal vizio, ma anche dalla tradizione. Si conoscono i ladri, e non si ha il coraggio di denunciarli: si preferisce pagare il riscatto richiesto. Le secolari tecniche degli abigeatari si stanno modernizzando. La mentalità orunese va tuttavia trasformandosi grazie alle scuole, alla radio». Appunto la tenebra e il chiaroscuro. Il quarto pezzo arriva da Orgosolo «due tristi primati di fama mondiale: il più arcaico villaggio d’Italia col più alto tasso di criminalità». Nessuna concessione al folklorismo ma scabra cronaca piena di verità, nel magistero di Franco Cagnetta e della sua Inchiesta su Orgosolo, pubblicata nel 1954 dalla rivista Nuovi Argomenti e che tanti guai giudiziari causò ai direttori Alberto Moravia e Alberto Carocci messi sotto accusa per vilipendio allo Stato dall’allora ministro dell’interno Mario Scelba. Dice Angelo Del Boca su Orgosolo: «Una collettività cristallizzata nel tempo con i suoi mali più antichi. Tutto è condizionato dalla miseria, dall’ignoranza, dall’errata concezione dell’onore. I sistemi repressivi non hanno contribuito a rafforzare il senso dello Stato e la fiducia nella giustizia». Un lapsus riguarda Giovanni Corbeddu Salis, bandito d’onore, ucciso da Aventino Moretti che poi cadde nella battaglia di Morgogliai, esercito e carabinieri contro la banda dei fratelli Serra Sanna di Nuoro, il 10 luglio 1899. Corbeddu, il «Re della macchia», era di Oliena.
Il pezzo conclusivo dell’inchiesta di Del Boca è da Sassari, martedì 17 gennaio 1967. «Il pastore in Sardegna: un’isola nell’isola. Manca un piano organico e globale per affrontare il problema Sardegna. I rimedi fino a ora impiegati quasi esclusivamente legati alla politica delle opere pubbliche o alle esigenze della sicurezza, si sono rivelati insufficienti. Nella pastorizia ancora a carattere primitivo una delle maggiori difficoltà da superare. Duecentomila emigrati negli ultimi anni».
La narrazione di Angelo Del Boca è compartecipe, anche lui «uomo forte» in territorio asperrimo. L’inviato sa che la repressione statale non ha mai risolto alcun problema. Del Boca, che fu partigiano oltre che storico della Resistenza, mette sotto accusa «un certo razzismo» degli italiani che guardano ai sardi con disprezzo senza sapere delle motivazioni che rendono la Sardegna «infelice regione». A questa maniera di essere e pensare di massa disinformata, Angelo Del Boca oppone quanto spiega bene Gonario Pinna nella narrazione del Pastore sardo e la giustizia poi diventato libro di diverse fortunate edizioni. È qui che si inserisce Antonio Pigliaru e la sua ricerca sul Codice della vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, ancora oggi, a quasi settant’anni dalla sua prima uscita, work in progress. Del Boca che pure sa che «vindicada» indica la necessità della vendetta definisce Pigliaru «cattedratico». C’è però in questa definizione il senso del comprendere storico che la storia deve riportare nel lato visibile e nelle sue zone d’ombra. A questo servono i poeti, guide preziose per Del Boca: Antonio Sini di Sarule, pastore che sarà metalmeccanico, e l’organizzatore del “Premio Ozieri” Tonino Ledda. Gli fanno da Virgilio nel cuore di tenebra. I problemi rimangono. A Orune, entra in scena Il maestro Giovanni Puggioni che Del Boca chiama «storico del villaggio». «I ladri? Individuarli non è difficile. È il coraggio di denunciarli che manca». Gianni Sannio, allora diskente con Pigliaru parla del «diare» dei ladri, spiare il paesaggio per giorni. Alla bettola de sa bona manu poi bisogna conoscere anche sos sinnos sulle orecchie delle pecore: pertunta, rundinina, giubale, il loro essere cancellati e rifatti. Dice l’orgolese Antonio Marrosu Gangas, uno che se ne intende: «Ci sono delle pecore che non hanno più orecchie a forza di essere rubate». Andare via? Fare parte del numero dei 200 mila emigrati su una popolazione di un milione e mezzo (un milione e otto) di abitanti? Dice il pastore orunese Francesco Zizzi: «E poi che se ne fanno in continente di un pecoraio?» Meglio restare pastori qui, dove «sessantamila» sono i «servi pastori».
Questo dilemma, Angelo Del Boca cerca di inserire come rimedio, tra altri otto indicati, tutti nella sfera istituzionale, dalla scuola alle riforme.
A 57 anni dalla sua pubblicazione, l’inchiesta di Angelo Del Boca serve a fare luce su quanto sia ancora per noi sardi, barbaricini di disatteso spirito autonomistico, arduo il cammino.