Il miglior ecclesiastico della diocesi
Diego Mele rettore di Olzai, sacerdote e poeta, patì isolamento e abbandono
di Natalino Piras
Carmelo Floris, Autunno a Olzai (1937)
5' di lettura
2 Aprile 2023

In accezione di solitudine, nonostante la giovialità del carattere e pure l’affetto della gente, Diego Mele (Bitti 22 gennaio 1797- Olzai 16 ottobre 1861), sacerdote e soprattutto poeta, potrebbe avere a termine di paragone i preti dello scrittore francese Georges Bernanos, quanti sono «parte sofferente del Cristo» come il giovane protagonista del capolavoro Diario di un curato di campagna(1936). Il curato di Ambricourt, divorato dal cancro, perduta la fede, vede il male annidato nei corpi e nei volti dei parrocchiani e delle parrocchiane. Eppure, nell’ultima riga delle pagine del Diario ritrovate dopo la morte, il curato di campagna dice che «tutto è Grazia». Lo si potrebbe sostenere anche per Diego Mele, quando prorettore a Lodé, in pieno isolamento e abbandono, dice: «Lupos mios, besside dae sas tanas,/unidebos a pare chin sas feras/pro dare a custu coro unu cunfortu». Sono la parte finale di ottave rimaste famose, Como sì chi piango chin rejone, dove il senso della Grazia è dato dalla satira, genere in cui eccelle, che il poeta adopera, commiserando prima di tutto se stesso, per sorridere amaramente di tanta afflizione, «in tanta soledade».

La satira da individuale passa a sociale quando nei gosos a rovescio, per tanto tempo ritenuti anonimi e ritrovati da una giovane Grazia Deledda ricercatrice sul campo per la Rivista di Tradizioni Popolari, il poeta Diego Mele denuncia inganno, sfruttamento e rapina, sulla pelle dei poveri, con forte senso della metafora: «Colatelu terra terra/ no’si goddat de sa icu/chi de comente est attrivitu/non bi ne lassat una perra/semprer est puntanne gherra/che santu orar de tinu». Davvero una strana lauda pro Sant’Antoni de Paduanu, patrono di Lodè. Qui il «tutto è Grazia» potrebbe essere dato dalle parole del canonico Giovanni Spano, il maggior intellettuale sardo dell’Ottocento, quando ricorda Diego Mele suo antico compagno di seminario a Sassari: «Fra i compagni diletti che avevo in scuola era quella bell’anima di Diego Mele di Bitti, grazioso, faceto ed improvvisatore vernacolo. Eravamo indivisibili, ed il nostro trattenimento, nel passeggio e gironzando, era di improvvisare canzonette giocose e satiriche nel rispettivo dialetto, ed a gara ci contendevamo la vittoria; egli però aveva la rima più pronta di me, ma io lo superavo in versi latini». 

Prete Diego Mele fu viceparroco a Oliena e Mamoiada. Dopo Lodè fu storico rettore di Olzai, dal 1836 al 1861, l’anno della sua morte. Là è sepolto. Fu sempre con i poveri contro i ricchi, poco ossequiente alla gerarchia. Quando nel 1832 era vice parroco a Mamoiada incitava i contadini rimasti senza terra a buttare giù siepi e muri a secco fatti erigere da gente spietata e furba, printzipales che  a Nuoro e dintorni avevano al loro soldo pure bande di latitanti, legittimati dall’Editto delle Chiudende (1820), promulgato dai Savoia per creare in Sardegna  «la proprietà perfetta», in realtà la privatizzazione di pascoli, terreni a coltivo, fontane, perfino parti boschive fino ad allora goduti comunitariamente. 

La ribellione fu punita. Diego Mele, allora trentacinquenne, fu mandato a scontare pena nel convento dei Cappuccini a Ozieri. Ancora isolamento e solitudine. Così, nel Canto dell’esiliato, il poeta sfoga l’amarezza del suo animo: «Oh, pena dolorosa/de custu coro affrittu,/senza fagher delittu/est pianghende./Su die suspirende/passo sa vida mia,/su notte in agonia/chin deliros».

Diego Mele usò della poesia come parte e come tutto, come cronaca sociale e narrazione di sé. Insieme alla satira ci sono elegie, dialoghi, apologhi che recuperano e adattano al luogo della sua missione sacerdotale, Olzai e paesi al confine, Ottana, Bolotana, e oltre Ula Tirso e Busachi, la tradizione di molentes e leones nelle ottave di Luca Cubeddu che a sua volta recupera Esopo e Fedro. Notevole patrimonio in versi, quello del rettore di Olzai, tramandato dalla voce del popolo che sa amplificare e trasformare la potenza e la bellezza della poesia se questa è tale. Le poesie del rettore iniziarono a diventare libro quando nel 1922 il medico e professore universitario olzaese, Pietro Meloni Satta pubblicò Il Parnaso Sardo del poeta bernesco estemporaneo, Teologo Diego Mele. Da là hanno attinto in molti, compreso monsignor Raimondo Calvisi, pure lui bittese. Nei suoi cinque libri, adesso in riedizione, di tradizioni e racconti popolari, Diego Mele c’è sempre. C’è in una antologia, a cura di Michelangelo Pira, nella collana I grandi poeti in lingua sarda delle Edizioni della Torre. Sempre in questa collana è importante di Diego Mele il volume Satiras (1984) a cura di Salvatore Tola e con un contributo di Bachisio Porru.  

Il principe della satira e dell’apologo rimane una compiuta figura di sacerdote militante il Vangelo come parabola della buona novella. Così il grande Giorgio Asproni, deputato al Parlamento Subalpino, fiero oppositore di Cavour, uno dei padri del pensiero autonomistico, compaesano di Diego Mele e che fu anche lui prete, nell’apprendere della sua scomparsa: «Era una delle persone a me più care sopra la terra. Era un uomo nato per amare, ed amò sempre. Nato povero, non resisteva alla vista della miseria altrui, e dava del suo necessario per soccorrere i bisognosi. Morì povero. Era senza contrasto il miglior ecclesiastico della Diocesi di Nuoro». Davvero in Diego Mele tutto è Grazia.

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