Il romanzo picaro di tziu Maumette, il cantore a cui rubarono la voce
Aveva “vaghe somiglianze” con Maometto, dicevano i reduci della guerra d’Etiopia
di Natalino Piras
Tziu Maumette (a sinistra in primo piano) in “Ammentos de Orune”
5' di lettura
9 Maggio 2021

Maumette da Orune o tziu Maumette era mezzadro a Jacu Piu di Cosimo Mannironi, fratello di Salvatore, uomo politico, al tempo che i due furono arrestati perché il loro nome figurava in un elenco di antifascisti, trovato nelle tasche di un agente inglese, sbarcato a Sarrala, in Ogliastra. In piena guerra. Maumette perché, rammenta la vulgata paesana, aveva «vaghe somiglianze con Maometto», così dicevano i reduci dalla guerra di Etiopia. Chi sa dove avevano visto l’originale. Il vero nome di Maumette, peraltro sconosciuto se non per l’anagrafe e il distretto militare dove tirò in leva, era Maoro Biagio Giacu.

I genitori erano tra di loro cugini di primo grado: Teresa Tola, morta giovanissima, e Giuseppe, noto ziu Poi, in quanto rimandava tutto a chi sa quale domani.

Maumette non fu certamente «baciato in fronte dal destino», né caddu isteddau e tantomeno de punta. «Non era un cuor di leone» e una volta che da ragazzo provò a rubare una pecora l‘impresa non gli riuscì.
Scontata la punizione informale inflittagli dal proprietario, Maumette abbracciò il suo destino di mite contadino in un contesto pastorale che ben altro richiedeva. Il personaggio sembra uscire da una qualche stesura apocrifa del Don Chisciotte. Si innamorò di una certa Giubannanghela poi andata in moglie a Isperinu di Sarule, emigrati entrambi in Francia, «con medaglia al merito per aver avuto 12 figli», ma finì per sposare la di lei madre Teresa Manza, nota Bettanedda (dal soprannome Bettanu della sua famiglia). A sua volta Bettanedda, una bella donna con il colore degli occhi tendenti a gattulinu, era reduce dal matrimonio con Michele Mariani, rimasto vedovo con otto figli, il più piccolo di sei mesi. Figli che non erano d’accordo chin sa bridica e pertanto erano andati a vivere da soli.

Maumette e Bettanedda si alternavano tra il paese e Jacu Piu, nella campagna di Cosimo Mannironi. Tutta un’altra cosa su dominariu di Cosomeddu dall’abitazione di Orune, due stanze, una sopra l’altra, unu giosso e unu sussu. A Jacu Piu avevano l’acqua corrente, c’era su gabinetto, legna a volontà. E un salario. Cosomeddu, su mere, trattava con Maumette e Bettanedda nella dimensione del tu per tu, mangiava spesso insieme a loro. Alla moglie aveva dato ordine di compensarli adeguatamente quando andavano a Nuoro con le primizie delle coltivazioni e degli allevamenti. «E così Maumette, col dire e convincere, fece sì che Cosomeddu fosse padrino di battesimo dei bambini di mezzo vicinato orunese di Lolloveddu o, per meglio indicare, di su Nodu ‘e Sa Mandra Bezza, sa Trappa, Contra».

Un giorno ziu Cairone, affittuario di un terreno confinante, venne a far visita a Maumette portando con sé un corvo dalle ali tagliate che gli serviva come guardia al pollaio. Sfuggito per un attimo al padrone, il corvo andò a posarsi sopra il recinto dove Maumette accudiva galline, anatre, oche. Il corvo si beccò una fucilata, mortale. In un’altra occasione, questa volta senza morti né feriti, Maumette e tziu Carretta, mezzadro-pastore dei Mannironi, spararono contro uno che rubava da un albero di arance primaticce. «Prima su mere e poi su zeraccu», sentenziarono a una voce dopo aver visto il ladro darsela a gambe.

Per essere scampato a malattie e servizio militare in prima linea Maumette fece voto di andare ogni anno alla novena e alla festa di San Francesco di Lula. Lo fece con encomiabile perseveranza sino alla fine dei suoi giorni. Portava sempre il vino fatto da lui, macinando i grappoli con i piedi. Insieme al vino su rosoliu di Bettanedda, che solo lei sapeva rendere così profumato. Bettanedda recitava ogni giorno il rosario e sas chentu pregadorias, estraeva i denti a chi ne aveva bisogno, filava lana per tutto il paese.
Sembrava la reincarnazione di una figura leopardiana: “Siede con le vicine / Su la scala a filar la vecchierella…”.

Un anno, Maumette venne estratto a sorte per fare il vicepriore del Comitato del Carmelo insieme a Zellacchinu, poeta, e con lui gareggiava in versi, non sempre di devota caratura: «Nostra Segnora de Su Carmelu, torrada ses a domo de Zellacchinu…» Finito il servizio a Jacu Piu, Maumette andò a lavorare nelle miniere di Iglesias, lui diceva Teulada. Tornava con un sacchetto di carbone e a chi gli chiedeva il perché di tanta fatica, rispondeva: «Sa pensione bisonzat de sì la meritare».

Aveva una voce bella. Cantava a tenores. Un giorno, a Jacu Piu, venne gente distinta insieme al senatore Mannnironi e gli chiesero di cantare in quell’incontro conviviale. Maumette acconsentì. Quando ascoltò la registrazione, il canto rimandato indietro da un aggeggio per lui sconosciuto, si incupì e disse desolato: «Mi ch’an tiradu sa boche». Come una espropriazione di identità. Come se insieme alla voce gli avessero rubato l’anima.
Maumette non cantò più e giunto in punto di morte disse ad un giovane parente: «Ispero chi in chelu mi la torren, sa boche». Certamente sta tra i pueri cantores del Paradiso.

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