Il tempo contadino che non torna più
Abitavamo l’Eden e volevamo andar via
di Natalino Piras
Giovanni Fattori, Buoi al carro (1885), Pinacoteca civica di Forlì
5' di lettura
24 Settembre 2023

L’orto finiva in settembre, capitanni, al tempo della nostra infanzia che mentre la vivevamo era tutt’altro che favolosa. Ricordo su tricu moriscu, il granturco abbrustolito su braci di sterpi e rosicchiato con gusto come cibo degli dei sotto un noce secolare a confine con le acque di Rivu Mannu. I torsoli sarebbero serviti per farci sos voeddos, buoi in miniatura, da tirare con un pezzo di spago. Erano quelli i nostri giocattoli, allora.

Dentro la campitura dell’orto, nella pietraia che terminava con la linea dei muri a secco sormontato da rovi carichi de caddones de mura, i miei zii Pascale e Tonneddu aggiogavano i buoi. I nomi del carro li ho appresi allora e non li ho mai dimenticati: sar jaccassu timonesa crapicasa susujasar soccas, Voe Murinu, Voe Ispanu, su puntogliusar vochessu tru e su iss: le sponde, le soghe di cuoio intrecciate al giogo per infilare il timone del carro, le funi, Bue dal manto scuro, Bue poderoso dal manto rossastro, il pungolo, le voci di incitamento perché il giogo si avviasse e si fermasse. 

I buoi legati al carro attraversavano l’acqua bassa dopo aver costeggiato tutta la riva sotto sa Piskina ‘e s’ elike, su burgu diIschiozza. Si fermavano a metà guado per bere e per pisciare accompagnati dalla voce bassa del carrolante: una specie di nenia che serviva a tenerli calmi, a dargli il tempo. Poi il giogo riprendeva a tirare. C’era un antro scuro davanti, acque di cui non si vedeva il fondo. I buoi lo costeggiavano prima della risalita per lo stradone principale dove il cammino sarebbe stato più agevole. 

Nel mentre, quelli di noi che erano rimasti nell’orto passavamo dae su tricu moriscu a sgusciare i ceci, su vasolu pizzutu, dalla loro teca giallastra, una scorza secca con dentro il frutto ancora verde.

Era un mondo di luci e improvvisi abbassamenti, di sapori e di odori. Nell’aria si diffondeva l’aspro del mosto mischiato a quello del letame fresco. La terra più anneriva più diventava molle. Anche la terra arata e da arare avevano un altro odore allora, forte ma denso di vita. 

C’erano i rituali della vendemmia. Ricordo la meraviglia della prima volta che ho visto Maureddu ‘e su Cunzinu, nipote di zia Torina, moglie di ziu Pascale, pigiare l’uva a piedi scalzi dentro una mezza botte tagliata a metà per ricavarci una tina. Il liquido viola scendeva gorgogliante attraverso unu laccheddu di legno oblungo adattato alla bisogna. L’altra metà della botte faceva da provvisorio contenitore.

La vigna di ziu Pascale confinava con la nostra cosi come l’orto, una pietra fitta a fare da segnale. La nostra parte di semina terminava con un canneto che si alimentava perenne da una pozza profonda, acqua sempre scura e misteriosa, immobile, ad ansa nel fiume, una pozza pescosa di trote e anguille. 

Noi eravamo là, partecipi e chi sa se consapevoli. Era quella la nostra vita da cui volevamo scappare perché pensavamo che l’orizzonte al di là dell’orto e della vigna fosse molto più vasto. Chi sa, era questa l’illusione: quante possibilità altrimenti inattuabili nella campagna di Ischiozza avremmo trovato una volta superata la linea di confine. Ischiozza, compresa in Su Pratu, una distesa che alternava erbai e zone di cardi dove ogni passo trovavi molas e molas in tempo di funghi, distava dal paese cinque chilometri. Ci volevano, a farla a piedi, un’ora all’andata e una al ritorno. La strada era di polvere e sembrava una fatica immane almeno fino a quando arrivavamo a sa rucrata appena dopo Ponte Marchesa, dove le acque che scendevano dae Su Lumbardu e da Grestales si innervano con quelle provenienti da Pala ‘e Carvone e prima ancora da Saraloi, tutto il sistema di Rivu ‘e Podda non ancora tombato. Scorreva aperto davanti a casa mia prima di farsi pozzo dei misteri nell’orto di Galigheddu. 

Era il tempo della nostra infanzia contadina, chi sa cosa daremmo per ritornare a quel tempo. Sappiamo che è impossibile. Quella campagna, quelle terre, quelle acque, non ci sono più. Rivu Mannu e la sua congiuntura con la totalità di Rivu ‘e Podda proprio davanti a su burgu di Ischiozza hanno vissuto l’oltraggio di inquinamenti da varecchina e altre luvas prima che il ciclone Cleopatra e quell’altro del 2020 le riducessero a men che acquitrino.

Noi come gente dell’impossibile siamo quelli di sempre. Questo tempo che cancella la memoria dell’infanzia contadina ci ha reso incapaci di sentimento dopo averci deprivato della nostalgia.

Aveva ragione mia madre contadina quando rimproverava a noi figli la presa di possesso nei nostri cuori, nelle nostre menti, della voglia di fuga dalla campagna. Troppa la modernità quando non si riesce a comprenderne l’apparenza che da suadenza passa a dominio. Abitavamo l’Eden e volevamo andar via. Nessuno, oggi, sa indicare una possibilità di ritorno.

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