Libros e contos de istacca
I tascabili hanno svolto una funzione importante di trasporto del sapere
di Natalino Piras
6' di lettura
18 Giugno 2024

Una delle ultime cose che insieme a colleghe e colleghi ho organizzato quando ero bibliotecario è stata quella de sos libros in bertula. Erano libri veri da mettere in una, tante bisacce, da portare in piazza per farne mostra, la bancarella dell’usato come modello. Per dire del libro come codice, tangibile segno, sinnu, di una civiltà, la nostra e le altre, che raccontano e si raccontano. In quella mostra rimasta allo stato di progetto c’era di tutto: Dante, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, Shakespeare, Cervantes, Gilgamesh,  Le mille e una notteIl tradimento dei chierici di Julien Benda, Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Grazia Deledda, Il fu Mattia Pascal di Pirandello, Pinocchio di Collodi, La fenomenologia dello Spirito di Hegel, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber. E tanto altro. Tra le cose in sardo, tradotto da Diego Corraine già agli inizi degli Ottanta poi più volte rieditato da Papiros, figurava Traballu salariadu e capitale di Karl Marx: unu libru de buzzacca, da mettere in tasca. Sos libros de buzzacca, i pocket, hanno svolto una funzione importante di trasporto del sapere, quello che, sostenuto, sostiene «virtute e canoscenza».

Uno dei libri classici di bertulabuzzaccaistacca è nella civiltà dei sardi, quella contadina e pastorale, Sa Jerusalem vittoriosa di Melchiorre Dore, prima edizione 1842, ovvero Sa Jerusalem victoriosa osiat s’historia de su populu de Deus reduida ad poema historicu-sacru. La Bibbia in sardo. C’è chi sostiene sia stato Luca Cubeddu, il grande padre Luca, pattadese, a fare da ghost writer per il bittese Merzioro Dore, parroco di Posada. Quando invece molto concorre ad attribuire il ruolo di creatore-estensore proprio a Merzioro. Scrive Monsignor Calvisi nel suo quarto libro Riti magici. Su Teju. Profili di poeti bittesi (Fossataro 1971, ora riedito da Carlo Delfino): «Il Vescovo Solinas, informato della capacità e della musa spontanea del Dore avendolo sentito improvvisare col poeta Cubeddu, gli ingiunse di compilare la Bibbia in versi per farla conoscere al popolo. L’Opera si compone di quattro canti con settecentotrentaquattro ottave, armoniosamente unite e fedeli al sacro testo in modo che il lettore può meditare e gustare la bellezza del contenuto, e, per l’assonanza della rima, facilmente ritenere a memoria. Infatti nella Barbagia e nella Baronia, l’opera è molto conosciuta, e vi sono pastori, anche analfabeti, che recitano interi canti a memoria con senso e comprensione. Il primo canto, di centotrentasette ottave, abbraccia l’epoca della Creazione del mondo sino all’uscita degli Ebrei dall’Egitto; il secondo, di trecento ottave, va dall’Esodo degli Ebrei al periodo di Salomone; il terzo di duecento ottave va fino alla nascita del Redentore; il quarto va dalla nascita del Redentore alla Distruzione di Gerusalemme e del Tempio».

Tutto da mettere in bertula, in buzzaccaintro ‘e s’istaccaimpare chin su pane e casus’abba ei su vinu

Bertulabuzzaccaistacca o taschedda, hanno affinità di significato ma non sono la stessa cosa. Sa bertula  è in tessuto, spesso de uresi, la stessa lana grossa de sas fressatas. La mettevano pure come sella sui cavalli. S’istacca, sa taschedda, di dimensioni più ridotte, munita di bretelle, era in pelle. Buzzacca è la tasca dei pantaloni. Tante le storie e le similitudini. Pone tres panes in bertula, bittese, viene sempre richiamato per dire della forma latina conservata nel sardo. S’istacca, in una filastrocca bambina è quella che contiene i doni de s’arina capute, l’ultimo dell’anno – ma tascheri tascaritascaresu è detto con disprezzo per ladri di poco conto, traditori e spie – sa buzzaccacomporta oltre al significato diretto soprannomi, diminutivi e accrescitivi, proverbi, metafore.  

Tutto questo serve, è parte fondante della civiltà del libro, della sua capacità di rappresentazione.

Da poco ho sentito una storia. Riguarda tre soldati, un orunese, un olianese, un lulese, perdutisi «nel Supramonte di Albania», così lo definisce il raccontatore, durante la Seconda Guerra mondiale, nella sciagurata spedizione italiana nei Balcani. Aspra, asperrima, terribile, nemica, la montagna del paese delle aquile, così è detta l’Albania, specie per chi non la conosce. Non b’at nuddaSolu preta. Cime inarrivabili e sprofondi. Il vuoto. I tre, l’orunese, l’olianese, il lulese, non avevano più niente da mangiare dentro s’istaccasa taschedda, una, una sola, che erano riusciti a portarsi da casa, a salvaguardare sinora.Camminavano e vagavano, erravano. Disperati, sempre più affamati. L’acqua che trovavano, qualche rivolo di ghiaccio che si scioglieva, non li sostentava. Infine decisero, per poter sopravvivere, di mangiarsi sa taschedda. Ne fecero tre parti uguali e la divorarono. Gli bastò sino a che scorsero da lontano del fumo che si levava. Segno che c’era gente. Stremati riuscirono ad arrivare al luogo da cui si levava il fumo. Erano albanesi che cuocevano pane. Ne chiesero ma non ne ottennero, niente pane da mettere in bertula, anche perché sa bertula bertuledda non c’era più. I tre allora puntarono le armi contro gli albanesi. Si presero il pane e lasciarono loro i soldi, le monete, che gli erano rimaste in tasca, in buzzacca. Addentato il pane ripresero il cammino. 

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