Dati societari
L’Ortobene
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08100 Nuoro
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Autorizzazione del Tribunale
di Nuoro n. 35/2017 V.G.
CRON. 107/2017 del 27/01/2017
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
Nell’ora di sosta per il pranzo, pan’e casu, al tempo della costruzione della fabbrica di San Giovanni, Titoppo, una vita da tzorronateri, fabulava sui puzzones murinos, letteralmente uccelli di colore grigio scuro, brunastro. A torme, passeracei, corvidi, storni, si precipitavano soprattutto sul grano ancora da raccogliere, completando l’opera di distruzione sui campi mietuti, i covoni già legati pronti per la trebbia. Era appena passato il tempo delle ciliegie di cui erano golosi specialmente i merli.
Sos puzzones murinos si sarebbero ripresentati sul fare dell’autunno, a insidiare altri alberi da frutto e l’uva delle vigne, spesso incuranti delle urla e dei rumori che sos vardianos producevano per allontanarli, battendo con un bastone o con un pezzo di ferro su qualche lamone o tambullana arrugginiti.
Murinu
Nel racconto di Titoppo sos puzzones murinos erano quanti, perdigiorno, oreris e altra genia di scansafatiche aspettavano il giorno di paga di amici e conoscenti, pure gente con cui di solito non trattavano, per precipitarsi anche loro a frotte, in tzilleri, dove avrebbero potuto bere a lungo. Gratis. Senza mai ricambiare il giro. Si godevano pure lo spettacolo di qualche moglie che veniva a cercare il marito che invece di tornare subito a casa, dove i soldi servivano perché numerosa era la prole, aveva pensato bene di bargaminarli in vino ordinando a più riprese da bere per tutti.
Scenate comico-grottesche dove erano i maschi ad avere paura delle donne, specie certe madri di famiglia, che malmenato il consorte, frugato nelle tasche per toglierli il denaro destinato a finire in altre mani, lo lasciava lì, steso per terra non prima di avergli aggiunto qualche resto di contumelia: « E como bumba cantu cheres mai ti torres a bidere! » Bastava uno sguardo, circolare, per fulminare tutti gli altri astanti.
Era la parola murinu ad avere prevalenza nel racconto di Titoppo. Quel colore virante allo scuro, un grigiore a gradazioni di nero, dominante nelle stagioni basse del tempo pastorale e contadino, detto per gli animali da fatica, unu voe murinu, ma pure per erbe infestanti, s’ispica murina, poteva essere anche cognome e soprannome di diversa gente, Murinu che diventava Murineddu. E via dicendo.
Murtinu
C’è un’altra parola che come suono e come segno molto somiglia a murinu. Basta inserire una t nel mezzo e diventa murtinu: il castano rossiccio del mirto. Anche qui il riferimento è immediato agli animali, il manto del cavallo sauro, s’ebba murtina che evoca la leggiadria de sa calavrina, la giovane puledra, ma si addentra, compone e ricompone pure colori di foresta.
Quando intervistai per la prima volta Luigi Podda, orgolese, sul tempo che fu partigiano nel IX Korpus Sloveno di Tito, disse che loro, sos pitzinnos pastores de su circondariu de Nugòro ritrovatisi a combattere insieme contro i nazifascisti dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, chiamavano i tedeschi frades murtinos: per il colore rossiccio dei cappelli. Un racconto di agguati più che di battaglie campali, di costrizione alla spietatezza per non soccombere alla crudeltà del nemico. Loro, i sardi, fatti grandi nella scuola impropria dell’ovile-montagna, sapevano come rubarglieli i cavalli a frades murtinos. E pure come incendiare gli aerei pronti al decollo a Ronchi dei Legionari, la bardana trasformata in epica di guerra di liberazione. Sos murtinos, i tedeschi, tutto erano per loro tranne che frades, loro, sos pitzinnos pastores, che nella foresta slovena si riconoscevano davvero come fratelli.
Murru
La terza parola della trilogia è murru, anche questo cognome di diverse persone e che significa pure, letteralmente, muso. Qui vale però come grigio, scuro, morello, moro.
Ancora usando i cavalli come riferimento, una conosciutissima canzone di ballo, unu corfu ’e tenore preso da uno e più proverbi della tradizione, dice a un certo punto: « Bae indoromala maju, chi b’est lampatas sicuru, mortu murru venit baju », lampatas è giugno e baju è il cavallo baio, manto rossastro.
Sta a significare che morto il cavallo morello viene il baio. Riportando il lemma nel suo Vocabolariu baroniesu, pubblicato dalla torinese Trauben nel 2003, il neuropsichiatra Giovanni Maria Cabras spiega che mortu murru, vèit baju sta per «i potenti» che «son tutti della stessa razza, le differenze sono minime». Una lezione sempre attuale. Ancora un’altra interpretazione della parola: « Chie lu chéret murru, chie lu chèret baju: chi la vuole cruda, chi la vuole cotta». La sfumatura di colore dice di separazione d’intenti e contrasto nel fare, un andare oltre la normale dialettica comportamentale.
Da murru vengono murrunzare, brontolare, mugugnare, contestare, persino il grugnire del maiale, murrunzèri, murrunzosu, murrunzu.
Impareggiabile, riportando la parola al significato originario, volgendo dal maschile al femminile, la metafora che contiene una grobe di Còsomo Sale, secolo XIX, riportata sempre dal vocabolario di Gianni Cabras: « A Murra m’an’a’iscoatu/ mi l’an torrata a tentoròria: Han tagliato la coda alla mia Mora/ me l’han rifatta giovenca».
I colori sono segni importanti nel bosco narrativo.