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L’Ortobene
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di Nuoro n. 35/2017 V.G.
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
Le lampade votive nei nostri santuari, specie quelli campestri, erano e sono alimentate dall’olio di oliva, ozzu ghermanu. Nessuna luce è così forte, nella penombra e nel buio.
Ozzu ghermanu si diceva per significare l’olio di oliva, virgine, diventato extravergine nel linguaggio commerciale. Ozzu ghermanu per differenziare l’olio genuino da tutti gli altri.
Nella sua plurimillenaria storia l’olio d’oliva sta in funzione normale, quotidiana, elemento base del duro lavoro e del nutrirsi per necessità. Ma è pure olio in funzione sacra, elemento di comunicazione tra l’umano e il divino.
La letteratura è popolata da gente dell’olio, testi classici e racconti presi dall’oralità. Re, principi, cavalieri regolarmente infeudati con sacre unzioni ed erranti nella pazzia come Don Chisciotte. Tipi normali e altri schizzati alla don Lollò Zirafa oppure pervasi di tignosità contadina come Zi’ Dima Licasi nella Giara di Pirandello. Ci sono mulini e frantoi dei romanzi di Grazia Deledda ma pure nel magnifico Paese d’ombre (1972) di Giuseppe Dessì. I frantoiani sono unti di morchia, sporchi di sansa, facce stanche oppure «subsunnanti» furbe occhiate come zio Vissente di Norbio, nel romanzo di Dessì.
La letteratura è pervasa dall’olio, da patti e tradimenti in suo nome, s’ozzu santu. Ci sono nei cammini dell’olio mercanti e truffatori, venditori e venditrici porta a porta provenienti da Silki alla periferia di Sassari oppure Oliena, asinai e cavallanti, carrettoneris, autisti di camion e furgoni, ventuleris e conciabrocche alla tziu Maloccu che risalivano Marreri avendo Nuoro come meta. L’olio, come il denaro, unge ruote e ingranaggi. Come il denaro, l’assenza dell’olio, il suo cattivo uso, la sua dispersione, accaparramento e rincaro, segna tempi duri, di fame, di guerra. Dice una poesia di Cosimo Sanna che in anni di carestia versavano all’ammasso delle olive anche sa tracatìa, bacche rosse di pruna aortita, precisa Tanielle Cossellu, di sapore amaro, da cui veniva un olio rossastro, acre, di cattivo odore.
S’ozzu ghermanu assume preponderanza nella storia della Sardegna al tempo di Carlo V (1500-1558), quello che diceva che i sardi eravamo pocos locos y male unidos. L’imperatore nel cui regno non tramontava mai il sole, in Europa e nelle Americhe scoperte da Colombo, faceva diventare nobili quanti riuscivano a impiantare dai 500 ai mille e più ulivi.
Secoli dopo, venduta la Sardegna ai piemontesi, sotto la dominazione sabauda, ancor prima della legge delle Chiudende (1820), riuscire a impiantare 4000 ulivi significava godere di molti privilegi, per printzipales e quanti, ricorrendo alla violenza e all’inganno, assoldando eserciti privati più che salariati, privatizzavano terre sino ad allora comunitarie.
L’ulivo è appieno dentro questa storia. S’ozzu ghermanu racconta di tanta fatica, di raccoglitrici di olive costrette per lunghi giorni, in pallido sole, sotto la pioggia sferzante, a piegare la schiena, a trasportare sacchi in spalla e altri pesi in equilibrio sulla testa.
Raccontava maestro Francesco Salis, fondatore del Museo della Civiltà Contadina a Santu Lussurgiu, delle gocce residue, una volta spremute le olive nei frantoi, fatte stillare dentro un apposito recipiente piccolo da uno più grande, gocce che sarebbero servite a pagare il lavoro delle raccoglitrici. Era quello il salario.
C’era una ragazza che raccoglieva olive a Marreri, negli anni Quaranta del secolo scorso, in tempo di guerra, nelle terre di dottor Ennio Delogu. Uliveti senza fine. Per raccogliere tutta quella quantità di olive ci voleva molta gente. Dottor Ennio, nobile discendente da un ramo aggiunto degli Arborea, antifascista, fondatore nel dopoguerra della Cooperativa Pastori a Orune e Bitti, pagava il giusto: tanto raccoglievi tanto venivi remunerato, in denaro e con una parte delle olive raccolte. La ragazza lavorava da sola, non perdeva tempo, non stava come le altre sue coetanee dietro cuentos e pettegolezzi. Si arrampicava agile e forte sugli alberi. A sera era riuscita a riempire un sacco di olive.
Ricordo altre raccoglitrici nelle proprietà di nobili sassaresi, tra Bancali e Alghero, agli inizi dei Settanta. La campagna stava avvolta in un silenzio irreale, presago, dopo che si erano spente le voci delle raccoglitrici di olive, il loro parlare grasso e ridanciano. Rientravano la sera alle loro case basse della periferia cittadina, tra frantoi e conce, stanze di casolari con i muri rossastri.
Tante se ne sentono ancora di storie come queste nei frantoi, quando si va a macinare le olive, raccolte in grande quantità o solo per la provvista familiare, in annate buone e altre di quando il vento le butta giù. Poi arriva il caldo anomalo – come quello cha abbiamo appena vissuto – a far seccare il frutto rimasto sugli alberi. Dove non bastano queste calamità c’è la mosca olearia. Ci vuole una fatica immane per debellarla e non sempre si riesce. Lo dice il signor Manno, frantoiano, in Paese d’ombre. (1. Continua)