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Ha lasciato scritto Francesco Masala, il cantore dei laribiancos che «Salvatore era come la sua terra: povero. Era basso, magro, malvestito, silenzioso, esitante, con un tic all’occhio che lo faceva lacrimare e che lui, con la mano, umilmente, cercava di nascondere, eternamente immerso in un mare di tristezza». Eppure Salvatore Cambosu (Orotelli 5 gennaio 1895 – Sanatorio di Nuoro 21 novembre 1962) resta uno scrittore immenso. Era cugino di Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura. Anche Salvatore scrisse molto, articoli, saggi. Fece inchieste sul Supramonte di Orgosolo, sul banditismo, sui pastori, su un’Isola antica non ancora dominata dalle servitù militari e dal dio petrolio. Collaborava con importanti testate: Il Mondo, Il Messaggero, Il Giornale d’Italia. Uno stile inconfondibile, di parola precisa, capace di racchiudere mondi in un sintagma.
Conosceva la Sardegna in lungo e in largo, da maestro di scuola, da utopista in perenne attesa dell’aurora e dei “nuovi figli” profetizzati da Sebastiano Satta. Era amico di molti scrittori e intellettuali. Conobbe Maria Lai, l’artista tessitrice di sogni. Pubblicava racconti che poi diventavano romanzi, Una stagione a Orolai, Lo zufolo.
Dopo la sua morte fu spesso dimenticato pure se ha lasciato in eredità un libro impareggiabile, un capolavoro: Miele amaro. Pubblicato per la prima volta da Vallecchi nel 1954, Miele amaro è stato più volte rieditato. È un metaromanzo sulla civiltà millenaria dei sardi, il loro silenzio, quanto in secoli e secoli, millenni di dominazioni sono riusciti a dire, i loro sogni, molti dei quali frantumati e sconfitti. Del libro c’è stata pure una ristampa anastatica nel 1984 a cura dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro. In un’altra edizione del 1989 scrive Manlio Brigaglia che Miele amaro fa «eredità diretta» con La rivolta dell’oggetto, manuale di antropologia della Sardegna. L’opera di Michelangelo Pira, pubblicata da Giuffrè nel 1978, è la riproposta scientifica di quanto Miele amaro riporta a una dimensione “lirica” e “poetica”.
Il miele amaro, ricorda Salvatore Cambosu è quello che le api producono dopo aver visitato i fiori del corbezzolo. «Degna di particolare attenzione è la statuetta che rappresenta Aristeo (patrono della terra e delle greggi) col capo ornato di api, trovata nel centro dell’Isola, presso Oliena, in una regione detta sa vidda’e su medde, il villaggio del miele».
Miele amaro sono 407 pagine di scrittura più una parte iconografica. Ci sono nel testo nomi di finzione e altri di reale entità. Stefano Virde, Giuseppe Tropea, Antioco Mezzadria, Gaspare Moina, Maria Pietra, Sempreinsella, Mastru Juanne (la fame), don Pietro Marengo, Sebastiano Mulinello (balente e vittima sacrificale allo stesso tempo), Cosima come Grazia Deledda, Massimo Ru (il rovescio del balente, il maledetto), la vergine Silvestra (Paska Devaddis), Potenzia Moro, Simone Cottasole, Rosa Tracca, Barbaro Peronnia, Priamo Apiario, Vincenzo Roncola, Carmine Muzzichile, Onorato Dente. Le cose che essi raccontano o le situazioni che vivono ed affrontano sono la rappresentazione della Sardegna durante un tempo ciclico eppure immobile, fermo. La fatica contadina e la durezza delle transumanze ritornano come costanti di un’unica stagione: tesa tra le origini del Sardus Pater (Sardopatore) e le avvisaglie di moderno (la luce elettrica) del secolo XX. La differenza sostanziale non è data dal succedersi delle epoche storiche (che pure il libro intersecano e che sono riportate nella nota cronologica finale) quanto dalla fissità del mare, un orizzonte perduto sin dalla notte dei tempi che riflette e allo stesso tempo respinge la vita dinamica delle genti dell’interno.
E ancora: Amsicora e Josto, circa tre secoli prima di Cristo. Viaggi a ritroso al tempo della pietra e dei nuraghi, poi il susseguirsi di molteplici dominazioni. Rari i momenti di irripetibili libertà.
Da Eleonora d’Arborea si arriva alla Sardegna che cerca di sconfiggere la sua perenne malaria: quasi alle soglie del 2000. Dentro questa diacronia c’è tutto: i cartaginesi, i romani, Cornus, Gregorio Magno, Ospitone, la dominazione vandala, la dominazione bizantina, la dominazione aragonese, le Carte d’Arborea, gli austriaci, i piemontesi, la prima e la seconda guerra mondiale. I poeti, don Baignu Pes, Montanaru, Giorgio Filippi. I viaggatori, Bellorini, Mango, Cian-Nurra. I bronzetti, il demone antropozoomorfo di Nule, l’eroe dai quattro occhi e dalle quattro braccia di Teti, la madre dell’ucciso rinvenuta nella casa dell’orco. Giovanni Lilliu ha schedato e fatto didascalia per queste immagini. Le xilografie e le incisioni di Delitala, Floris, Dessy, le fotografie di Salvatore Pirisinu: il guardiano delle capre mannalitas di Busachi, la processione di Desulo, is fassonis dello stagno di Cabras, la Sartiglia, le bicocche di Lodè. Eroi positivi sono Giorgio vescovo di Suelli ma pure lo sposo che fa scolpire indelebili parole per l’amata Pontilla sepolta nella calaritana Grotta della Vipera. Tra gli antieroi, si ritaglia una sua particolare godibilità l’Anzipirri, uno dei nomi con cui Cambosu chiama il diavolo, altrove definito Lusbè e prima ancora Piedicapra.
Lo stile di Salvatore Cambosu è sempre intrinseco al contesto narrato, sa perennemente di fascino.