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Francesco Mariani
La sequenza fotografica l’ha messa su, una decina di anni fa, in Vitzikesos di Facebook, Antoni Carzedda. Sono i ritratti di tziu Tzarra, Juannantoni Goddi (classe 1867) vrate de Biddiu, dei figli Primavera, Lucia Eredina Goddi (classe 1902) e Piollitteddu o Piullitteddu (classe 1909), il mitico Luisi Goddi. Abitavano nel vicinato di Pinna ‘e Todde, un poco sopra Cadone. Erano poveri, campatores. Poeti il padre e la figlia, oggetto di narrazione il figlio. Tutti di fama per i loro versi taglienti, per i fatti in cui furono coinvolti, riflesso delle loro vite chi sa quanto tribolate. Le poesie sono composte da parole forti, taglienti, di feroce satira, contestazione di molti poteri, spirituali e temporali. Ma sono pure contro l’ingenuità, l’estrema umiltà, la sottomissione di poveri come loro.
Al tempo del fascismo, tziu Tzarra, in un iornata particolarmente uggiosa incrocia insieme Perantoni, un disamparato olianese in terra bittese, dottor Ferdinando Buffoni, capitano della milizia e medico condotto e, bene in possa, umanne, il parroco Respano, compaesano di Perantoni. Questo il commento, in poesia, di Antoni Goddi: «Salute dottor Buffoni, estitu ‘e capitanu, gai siet su probanu, comente oje est Perantoni».
In Quale memoria pro so’ remitanos (1983) con Giulio Albergoni riportiamo un episodio che riguarda Primavera, una risposta terribile, sempre in poesia, che la figlia di tziu Tzarra, dà a una remitana di Cadone che le chiedeva, mentre mietevano a schiena curva, di «metterle una poesia». Primavera fa rimare «campana gurda», campana filata, con «burda».
Di Piolliteddu ho sempre sentito parlare sin da ragazzo. Era bracciante, tzorronateri, indossava quasi sempre vesti logore, di fatica, in testa un cappellaccio messo di sghimbescio con attaccato un cartello che indicava in cifre quanto realmente valeva il suo lavoro e quanto era invece la misera paga, salario da fame. Un chiaro invito per gli altri a svegliarsi perlomeno se non a ribellarsi ai prinzipales, a sos riccos prepotenti, mandrones e sanguisughe.
Nell’opera in due volumi L’antifascismo in Sardegna (Edizioni Della Torre 1986), a cura di Manlio Brigaglia, Francesco Manconi, Antonello Mattone e Guido Melis, nell’indice di tante biografie esemplari redatto dal compianto Simone Sechi, il nome di Luigi Goddi, terrazziere, compare vicino a quello di dottor Ennio Delogu, veterinario. Gli unici due antifascisti, in un paese di fascisti. In una nota, sempre su Facebook, il poeta Giovanni Dettori ne aggiunge un terzo, Francesco Burrai, Franzìsku de Pajore, «piuttosto “appartato”, rispetto al quale Ennio potrebbe passare per imboscato. E Piulliteddu (non Pio…) per un ingegnoso lestofante».
Dice la vulgata che al tempo del fascismo, una volta, Piollitteddu e un altro vagabunnu decisero di emigrare in Corsica. Raggiusero Palau prima con un cavallo rubato, l’ultimo tratto a piedi. Individuato il luogo d’imbarco minacciarono un barcaiolo puntandogli contro un ferro arrugginito: «Siamo della banda dei fratelli Pintore (allora nomi temutissimi in tutta l’Isola) se vuoi salva la vita portaci in Corsica!». Il traghettatore, era notte, finse di accettare ma invece che in Corsica li sbarcò a Caprera. Poi, tornato indietro, dette l’allarme. Furono immediatamente mobilitati l’Arma, l’esercito, la marina, manipoli di camicie nere. Pur sotto assedio Piolliteddu si rese conto di tutto quello che succedeva. Aspettò sopra un cucuzzolo l’arrivo dell’invincibile armada e quando furono a tiro di voce si erse il tutta la sua statura di allegro fantasma e fece «cucù, cucù», un cucù al fascismo.
Altro pezzo forte è Piolliteddu che entra in chiesa, lui che proprio uomo di chiesa non era. In piedi, in fondo alla navata centrale di Santu Jogli, il parroco Respano vede arrivare Piolliteddu palas a Deus ma non può negare la confessione che Luisi Goddi chiede a faccia contrita. Ne ebbero per qualche tempo e alla fine, assegnati non so quanti Pater, Ave, Gloria, prima di impartire l’assoluzione Respano chiese al penitente di recitare insieme a lui l’atto di contrizione.
«Ma, su probà’, jeo no’ l’isco sa preghiera». «E tanno pone iffatu a mie. Ripeti: Atto di dolore mio Dio». «Atto di dolore». «Mi pento e mi dolgo». «Mi pento e mi dolgo». Così sino a «perché ho offeso il tuo nome», fa Resapano. E Piollitteddu, leanne a rivu tortu: «Luisi Goddi». «Comente?» «Su probà’, m’azzes dimannatu su numene meu e jeo bos appo rispostu. Su numene meu est Luigi, Luisi Goddi». Una, due, tre volte. Non ci fu verso di far cambiare risposta al falso penitente che se ne andò via di chiesa senza assoluzione.
Tante altre sono le storie.
Piollitteddu morì di lavoro, a Roma, dove era emigrato. Cadde dall’impalcatura di un palazzo in costruzione dove lui faceva il manovale.
Molti sono ancora oggi i caduti sul lavoro come Piollitteddu. C’è da sperare che non vengano dimenticati dal Dio dei poveri che, nonostante il parere contrario di tanti epuloni di paese e pure del parroco Respano, niente aveva da rimproverare a Luisi Goddi. Piollitteddu abita ancora nel cuore di molta gente.