Unu bonu sacerdote in tempi difficili
Ritratto di don Giorgio Pala, bittese, una vita segnata dalla malattia
di Natalino Piras
Don Giorgio Pala
5' di lettura
18 Settembre 2022

Un prete che sarebbe attuale, se fosse conosciuto, se non fosse ingiustamente consegnato alla dimenticanza. Giorgio Pala, nato a Bitti il 19 aprile 1926, morì il 26 aprile 1978, 52 anni appena, dopo 12 di dolorosa malattia, vissuti «con animo grande» dice Ciriaco Vedele ricordandolo un mese dopo su L’Ortobene (27 maggio 1978), «quando sulla sua anima si è stampata quell’impronta di sofferente e di martire per la lunga e lenta passione che ha vissuto come Cristo e con Cristo».

Come una risonanza delle pagine conclusive del Diario di un curato di campagna (1936), capolavoro di Bernanos: «La grazia delle grazie sarebbe quella di amare umilmente se stessi allo stesso modo di qualunque membro sofferente del Cristo».

Don Giorgio Pala deve essere stato davvero un grande prete. Ordinato sacerdote il 5 agosto 1950, fu dapprima impegnato nel seminario di Nuoro poi viceparroco in cattedrale, parroco di Mamoiada e Oliena. Aveva carisma. «La sua azione pastorale – dice Ciriaco Vedele – dovunque si svolgesse, a scuola, fra le mura del seminario, con i giovani aspiranti al sacerdozio, nella chiesa parrocchiale, in casa dei suoi parrocchiani, nel confessionale, o nel letto della sua interminabile sofferenza, diventava una esperienza di grazia e di bene che elevava e sublimava la fragilità umana». Unu bonu sacerdote, per riprendere adesso quanto diceva tanto tempo fa mia zia Rukitedda che della fede nel Dio dei poveri e degli umili fece sistema di vita.

Ricordo don Giorgio Pala ai tempi della mia forte educazione cattolica, a Bitti, quando ero bambino, all’ombra della parrocchia. Fu come un’apparizione, uno stagliarsi della sua figura, in tonaca nera, un camminare agile nella parte alta del Corso, davanti a su tzilleri ‘e Zinuariu, un poco sopra di quello che sarebbe diventato il mito di Borgopio, una stanza di pochi metri quadri, un finestrone sul retro, un bancone di mescita e due panche, creato da Pretu Pala, fratello di don Giorgio, inventore del “Baciamisubito”, un moscato dolce dolce che «molte generose alme d’eroi travolse all’orco».

Come altri preti miei compaesani morti giovani, ricordo don Valerio Ligios e don Diego Burrai, don Giorgio Pala faceva parte delle persone da portare a esempio. Più che di catechismo era la loro una fama di sacrificio, di eroismo comportamentale che nonostante li consumasse la malattia, nonostante la loro fragilità fisica, erano di totale dedizione alla causa del Vangelo. Affatto disinteressati a qualsiasi tornaconto personale.

In don Pala deve esserci stata una lietezza nel comunicare questo stato di autentica grazia cristiana, il vero senso della caritas come dono di sé nel segno della sapienza del cuore. Era di postura serena, visibile in qualche fotografia stampata nel libro autobiografico del nipote, Dino Pala, Una vita… bella e vissuta, pubblicato nell’aprile 2021.

In quella fabbrica di vocazioni che per molto tempo è stato Bitti, la vicenda di don Pala è emblematica del sacerdozio come idea e come ideale di mettersi al servizio della gente, prima ancora che calcolo e profitto, quanto sosteneva quel mannatu a istudiare in seminariu come progetto di sistemazione di tutta la famiglia. Se non fosse che, avvertiva la saggezza umile di tzia Rukitedda, pro essere unu malu sacerdote menzus unu bonu seculare.

Don Giorgio Pala, esemplarmente, sostenne il coraggio di essere unu bonu sacerdote. «La personalità di don Pala – ancora Ciriaco Vedele – si stagliava netta, scontornata e pura sulla scena della vita, con uno stile francescano, fatto di entusiasmo e di gratitudine per tutte le cose buone e belle, di stima e carità per le persone buone e leali, di molta comprensione per chi spesso ha preferito agire anche con lui nella cattiveria e nelle tenebre». Forte deve essere stata la tempra.

Erano tempi difficili per la Chiesa, nel passaggio dalla tradizione ancora segnata da molta controriforma al vento nuovo del Concilio Vaticano II, dentro tutti i retaggi della guerra fredda e del Sessantotto che si annunciava da Berkeley a Praga, da Parigi sino alla sperduta landa di Nuoro e dintorni, la durezza dei paesi della Barbagia, il fatto che quanto aveva costituito marcante identità, la condizione pastorale e contadina, andava adesso come perdendosi, progressivamente erosa dall’illusione industriale.

Il muoversi di don Pala, il suo essere prete contemporaneo, fu dentro questa dimensione, con l’idea, sempre, che Caritas Christi urget nos. «La severa liturgia funebre di un 27 aprile piovoso e freddo – così inizia il ricordo di Ciriaco Vedele, – le parole vibranti e commosse di un vescovo circondato dai suoi preti, gli sguardi di una folla eccezionale, fissi sulla bara di un sacerdote, hanno costretto molti a riproporsi una domanda: chi era don Giorgio Pala?».
Tanto più ingiusta la dimenticanza.

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