27 Settembre 2023
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Dal 2016 con l’aiuto di tre suore dell’Istituto Poverelle di Bergamo fondato da san Luigi Palazzolo, dirige la casa di accoglienza “Don Graziano Muntoni, dedicata al sacerdote ucciso a Orgosolo alla vigilia del Natale del 1998. Si occupa di chi ha avuto l’affidamento ai servizi sociali, arresti domiciliari, permessi premio, semilibertà e di chi ha la possibilità di svolgere un lavoro fuori dal carcere. Originario di Arborea, classe 1960, don Gaetano Galia è entrato nei Salesiani a 16 anni, oggi presiede il Cospes centro orientamento scolastico professionale e sociale della Sardegna e insegna Teologia dell’educazione presso l’Istituto di Scienze Religiose. Prete di strada, è abituato a vivere a contatto con i giovani più difficili, con situazioni familiari complesse, applica nel quotidiano una pastorale educativa basata sui valori trasmesso da don Bosco. Religione, ragione e amorevolezza, perché i giovani hanno bisogno di essere ascoltati e consigliati con il cuore e aiutati ad uscire dalle situazioni di disagio. La repressione e la sanzione non sono sufficienti a favorire la riabilitazione tanto più negli istituti di pena dove le condizioni di vita sono sempre più precarie.
Don Gaetano vive con i giovani e li sostiene nella preghiera. Il suo è un lavoro silenzioso ma prezioso che offre una seconda opportunità a chi sa di aver sbagliato e vuole ricominciare. Perdono è una parola che ritorna spesso nei discorsi del salesiano. Lui conosce Sassari e le sue periferie più difficili come Latte Dolce, ha diretto le comunità alloggio per minori nel Centro salesiano di San Giorgio, dal 2011 è cappellano del carcere di Bancali e direttore dell’ufficio di Pastorale penitenziaria della diocesi di Sassari.
Come valuta la crescita di episodi di disagio giovanile?
«Io credo che dobbiamo fare attenzione a come valutiamo questa crescita del disagio, perché il nostro mondo attuale, dominato dai mass media, tv e social, dà una visibilità maggiore a certi episodi che sono stati sempre presenti nella storia dell’uomo. Faccio un esempio, stupri e femminicidi, ci sono sempre stati, solo che ora vengono immediatamente segnalati e diffusi a tal punto da farli sembrare in aumento. Prima le stesse cose accadevano, rimanevano nel silenzio per evitare la vergogna o l’emarginazione, oggi invece vengono immediatamente comunicati e condannati. Credo che la sensibilità sia cresciuta. Diverso è invece la rinuncia a educare del mondo degli adulti che sempre più smettono di essere educatori dei giovani e diventano sempre più amici. Gli amici non educano, hanno un rapporto paritario. Inoltre, il narcisismo e la voglia di emergere del mondo degli adulti porta ad una netta separazione tra le due generazioni e le mette quasi in competizione».
Nella Comunità don Muntoni che tipo di approccio usate per il reinserimento dei giovani?
«I giovani della nostra comunità vengono da esperienze di detenzione. Il primo passo è quello di far prendere coscienze degli errori fatti e dell’importanza di impostare la propria vita sul versante della legalità e del rispetto delle cose e delle persone. Quindi oltre al dialogo, ci sono momenti di lavoro, dove con la fatica quotidiana ci si riappropria della modalità normale di affrontare la vita e di guadagnare il denaro per poi vivere senza ansia e senza il terrore di essere rimessi in carcere».
La voglia di applicare misure repressive da parte del Governo che tipo di effetti collaterali potrebbe avere?
«Vi sembrerà strano ma condivido una parte del pensiero, nel senso che i nostri giovani hanno bisogno di percepire una certa fermezza da parte dello Stato, degli adulti, delle istituzioni, perché il rischio è di crescere con l’illusione che tutto si può fare e se ne esce sempre impuniti. È necessario far prendere coscienza che ogni gesto ha delle conseguenze e la persona si deve prendere le sue responsabilità. Poi è chiaro che queste misure non bastano da sole. È necessario accompagnarle con proposte preventive ed educative».