
22 Novembre 2025
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La Coop sociale “Il Mandorlo” nasce nel 1992, su iniziativa di un gruppo di giovani di Comunione e Liberazione, per cercare di dare risposta al disagio giovanile in gran parte non ascoltato nelle famiglie, scuole e parrocchie. Notavamo che “un’intera generazione stava crescendo in balia di se stessa, orfana di maestri ed esempi veri da seguire”. Avevamo dinanzi il diffondersi delle tossicodipendenze che pure in città era argomento tabù.
Iniziammo con un centro di accoglienza diurno ben presto diventato di 24 ore e gestito da volontari per 10 anni. Ci rendemmo conto da subito che il problema vero non era quello dei giovani maggiorenni in balia della droga: la radice del malessere era prima. Era nei ragazzi abbandonati a se stessi o testimoni involontari di comportamenti genitoriali devianti. Gli stupefacenti si stavano diffondendo per effetto piramidale, dall’alto in basso. Sono stati gli appartenenti alle classi agiate i primi consumatori di droghe, poi giù giù fino ai derelitti o quasi.
Da qui l’idea di dar vita ad una casa famiglia maschile per minori. Non fu facile. Nuoro aveva allora 45 minorenni inseriti in strutture del Continente e in qualche caso dell’Isola. L’indirizzo delle amministrazioni comunali era di proseguire su questa linea. Ci volle una lunga trattativa con esse e con la Regione per porre le condizioni di questo nuovo servizio. Il sogno si concretizzò il primo novembre 1995, festa di Tutti i Santi. I primi ospiti avevano tra i 14 ed i 18 anni, che era la fascia di età maggiormente ricorrente ai servizi sociali. Agli inizi del 2000 il servizio venne esteso anche alle ragazze. Stava infatti succedendo un cambiamento epocale: le richieste di inserimento riguardano sempre di più ragazzini tra i sette ed i 14 anni. Era insomma iniziato il fenomeno massiccio della disgregazione familiare che nell’andare del tempo si è acuito sempre di più. Fummo costretti a rivedere i nostri paradigmi per rileggere il mutamento in atto.
La casa famiglia doveva avere lo spirito e la corporeità di una famiglia, ossia del bene prezioso che a quei ragazzi mancava. Non per loro scelta ma per effetto del comportamento degli adulti.
Se prima, nella riunione settimanale dei ragazzi c’era chi diceva “sono qui per migliorarmi umanamente”, ora la considerazione era “non ho nessuno”. Si trattava, per noi, di rivedere le coordinate del nostro operare. Da tenere presente che in quegli anni la figura dell’educatore professionale era ancora in via di definizione. Bastava il diploma delle magistrali per poter svolgere questo compito. Inoltre la nostra casa famiglia era l’unica in provincia e dovevamo inventarci un modello cui ispirarci.
Le coordinate di questa rilettura, oggi più che mai attuale, cerchiamo di riassumerle.
Avevamo iniziato in un contesto sociale abbastanza stabile nel senso che era composto da un insieme di individui che condividevano fini e comportamenti per costituire un gruppo o una comunità. Condividere fini e comportamenti significa avere in comune dei valori, una identità condivisa. Certo, nel tempo, fini e comportamenti si modificano, si aggiornano e possono subentrare anche momenti di confusione, di anomia, di mancanza di regole chiare e condivise. Ma la volontà di costruire un gruppo o una comunità c’era.
Società liquida.
Ebbene, questo tipo di società era diventata sempre più marginale. Al suo posto è subentrata quella che viene chiamata “la società liquida” o “la liquido-modernità”. Di cosa si tratta?
Ciò che è liquido non ha e non può avere la stessa forma per lungo tempo. La sua forma è soltanto il periodo di passaggio da un recipiente all’altro. La vita liquida dell’uomo moderno cambia continuamente forma non si esprime in relazioni stabili, non ha fini e comportamenti condivisi. In altre parole: “Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”.
Cosa fare dinanzi a questo scenario?
La sfida che viene posta è innanzitutto di carattere educativo, tanto che il 60% degli italiani ritiene che l’educazione sia un’emergenza nazionale. Cosa vuol dire educare?
Letteralmente significa far crescere, tirar fuori quello che di buono c’è in una persona. Non si tratta dunque di riempire o indottrinare qualcuno, ma di metterlo in condizione di potersi appropriare di valori. Per avviare un rapporto educativo c’è innanzitutto bisogno di un adulto che, in base alla sua esperienza leale, propone dei valori, un modello di vita.
Nel percorso educativo, la Coop “Il Mandorlo” tiene presente i tre aspetti insegnatici da Papa Ratzinger. Essi sono:
Verità. Sarebbe una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita.
Libertà. Il rapporto educativo è innanzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano. È la verità che ci fa liberi, non la libertà che ci fa veri.
Autorità. L’educazione non può fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero.
Dina Pittorru

