11 Settembre 2025
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Alexis de Tocqueville è uno dei pensatori che ho più letto in gioventù. Egli ha cercato di connettere politica, filosofia e religione; fede e ragione; tradizione e progresso; libertà e autorità. Il tutto partendo da un dato di fatto: la società e l’uomo che la abita sono entrambe realtà imperfette. Questo significa che nessuna forma politica, compresa la democrazia, è esente da errori e non può essere idolatrata.
Grazie a queste premesse ho capito da subito che i tre principi fondanti della Rivoluzione francese (libertà, uguaglianza e fraternità) hanno tra loro un rapporto dialettico e non paritario. La libertà non può essere assoluta altrimenti sfocia nell’anarchia. Quando c’è più libertà c’è meno uguaglianza e viceversa. Se il primato è posto sull’uguaglianza inevitabilmente si comprime la libertà, a meno che non si viva volontariamente in un monastero benedettino. La fraternità, infine, non può essere una cosa imposta o una ricetta ideologica. Qui sta la questione più complessa.
Come si può istituzionalizzare la fraternità fra i cittadini senza limitare il loro libero sentire? L’affezione, l’amicizia, l’accoglienza sono esperienze personali non programmabili istituzionalmente. Per la scuola hobbesiana, l’uomo è homini lupus. Nessuno Stato può imporre al suo cittadino l’obbligo della fraternità. Compito dello Stato è quello di vigilare per impedire lo sconfinamento dei diritti individualistici in quelli altrui.
Libertà e uguaglianza “sono due sorelle che litigano” e alla fine hanno bisogno di qualcuno che le sintonizzi. È questa la funzione della fraternità. La quale nasce da coloro che si sentono fratelli ed esprimono tale relazione in un’uguaglianza e una libertà rispettose delle differenze e dei bisogni dell’altro. Altrimenti, proprio a causa della mancanza della funzione regolatrice della fraternità, si generano nuove forme di disuguaglianza e di schiavitù.
Questa mancanza è una delle cause principali della crisi che investe la nostra politica. Il bene comune è diventato il velo dietro cui nascondere “il particulare”, gli interessi clientelari e la sete del potere; gli avversari politici diventano dei nemici da eliminare con ogni mezzo; il pluralismo è cosa da declamare in pubblico e da estirpare dietro le quinte; l’odio e la diffamazione hanno preso il posto di un leale confronto. Altro che fratellanza! Avendo espunto Dio dal nostro orizzonte, dalla nostra intimità, ci prostriamo adoranti dinanzi all’idolo del momento, a qualcosa che è fatto da noi e di cui siamo padroni e servi nel contempo. Sull’altare di questi idoli, totalizzanti, siamo disposti a sacrificare anche gli affetti più cari.
Dagli idoli non nasce la fratellanza ma l’arrogante affermazione della “mors tua vita mea”. In Alcesti, tragedia di Euripide, il re di Fere, Admeto, colpito da un morbo che non perdona, ottiene dagli dei la grazia di non morire, purché si trovi qualcuno disposto a morire al suo posto. Admeto si rivolge ai genitori, vecchi come sono dovrebbero accettare lo scambio. Ma quelli rifiutano sdegnati. Soltanto la giovane sposa, Alcesti, si offre volontaria. Dopo il suo sacrificio arriva Ercole, che scende nell’Ade e la riporta sulla terra. C’è una bella differenza tra il dare la vita per amore e pretenderla con la morte altrui.
