
29 Marzo 2025
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Il Manifesto di Ventotene è diventato un’arma di distrazione di massa. Il suo uso palesemente strumentale giova allo scontro, e non al un confronto, tra chi lo critica e chi lo ritiene il totem dell’europeismo.
Breve ma doverosa premessa. Spinelli, Rossi e Colorni, che tale manifesto scrissero, erano degli antifascisti, di matrice comunista, condannati per questa loro battaglia al confino in una isoletta sperduta, segregati dal resto del mondo. Colorni, una volta liberato, tornò a Roma a fare il partigiano e venne ucciso dalla banda Koch. Noi dobbiamo gratitudine per chi ha combattuto per la nostra libertà, al di là della bandiera politica sotto la quale hanno militato. Come è pure doveroso, in questo come in tutti i casi della storia, tenere presente il contesto nel quale i fatti sono avvenuti. Una visione anacronistica, cioè leggere l’ieri con gli occhi dell’oggi cancellandone la temporaneità, non serve per capire ed imparare dalla storia.
È doveroso essere grati agli antifascisti, specie a coloro che hanno pagato di persona e lo sono stati sul serio. Non come gran parte degli intellettuali nostrani che finita la guerra sono passati dall’essere fascisti al dichiararsi antifascisti come si trattasse di bere un bicchiere d’acqua. Ricordiamoci che solo dodici professori ordinari su 1.250 rifiutarono nel 1931 di giurare fedeltà al duce. Quei dodici perdettero la cattedra e la libertà personale, ma non quella della coscienza, non la coerenza con se stessi. Gli altri, caduto il duce, divennero ovviamente spergiuri, antifascisti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, ma non venite a fare lezione di coerenza a tutti, a pretendere che gli altri avessero fatto ciò che voi non avete fatto.
Premesso tutto questo, cosa che nello scontro strumentale sul Manifesto di Ventotene è sfuggito sia alla Meloni che ai suoi oppositori, precisiamo due cose. La prima è che essere grati a chi ha combattuto il regime non vuol dire condividerne in toto o anche in parte le idee ed i progetti per una futura democrazia. Combattere il nemico comune è relativamente facile (sotto il fascismo neanche questo lo era) ma accordarsi sul poi è molto ma molto più difficile. Nella storia è sempre stato così: abbattuto il tiranno si è finiti, spesso e volentieri, col sostituirlo con uno peggiore. Soprattutto quando di mezzo non c’è la libertà dei cittadini in se stessa, ma la conquista del potere con cui governarla. Soprattutto quando lo scontro ideologico prevale sul confronto politico, quando si ha bisogno di miti per eternare la propria indiscutibile vulgata. Ma con i miti e gli eroi non si va molto lontano. Gran parte degli italiani, ad esempio, sono ancora convinti che la seconda guerra mondiale l’abbiamo vinta noi dimenticandoci che eravamo un paese sconfitto ed inaffidabile e come tali ci siamo presentati alla conferenza della pace a Parigi. Senza contare che ancora oggi paghiamo pegno per quella vicenda storica.
Seconda questione: quando si scende in piazza sventolando il Manifesto di Ventotene è ingiusto dimenticare chi dell’Unione Europea ha posto realmente le fondamenta. Sono un francese, un tedesco, un italiano. Tre uomini di frontiera. Tre perseguitati dal nazifascismo. Tre statisti. Tre cristiani. A far compiere all’Europa i primi passi verso l’unità sono Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Chi oggi grida “più Europa” farebbe bene a rivolgere un grazie a costoro. Se non altro per rispetto della storia.