Edoardo Tresoldi, Basilica di Siponto, installazione
La fede nel grande mare della spiritualità
Sociologia. Il professor Roberto Cipriani analizza i dati sulla pratica religiosa degli italiani
di Franco Colomo

6 Ottobre 2025

7' di lettura

Il rapporto degli italiani con la fede continua ad essere oggetto di indagine sociologica, seppure siano ormai passati diversi anni dagli studi più completi sul tema. Nel 1995 usciva La religiosità in Italia (Mondadori), del 2020 è invece L’incerta fede edito da Franco Angeli (a questa ricerca fa riferimento anche Franco Garelli nel suo Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, il Mulino) che, già prima della pandemia, anticipava alcune tendenze poi emerse chiaramente circa la categoria dell’incertezza, appunto. Di tali ricerche è stato protagonista Roberto Cipriani, lo abbiamo avuto come ospite nella nostra redazione.

Professore come si è evoluta la situazione in questi ultimi anni?
«Da un po’ di tempo si stanno pubblicando rapporti molti sintetici, basati su un campione minimale che difficilmente rappresenta un Paese così diverso come l’Italia, eppure c’è una sorta di concordanza a ritenere che, tutto sommato, i dati del 2017 non siano cambiati di molto.
Forse il dato più appariscente è quello relativo alla pratica religiosa: nel ‘94 eravamo intorno al 31% in tutta Italia e nel 2017 siamo scesi al 22%. Tra l’altro questo dato del 22% è stato dimostrato sia attraverso l’approccio quantitativo che quello qualitativo. Per dire del cambiamento dobbiamo riferirci alla frequenza, soprattutto alla Messa domenicale. Invece ciò che è interessante è che come una sorta di vasi comunicanti vi è stato un travaso dall’una all’altra manifestazione religiosa. Ad esempio in questo momento i sociologi della religione sono molto attenti alla dimensione della spiritualità. Naturalmente sotto questa categoria va detto molto: ci va l’esoterismo, il gruppo di preghiera, la meditazione trascendentale, alcune pratiche similbuddhiste, insomma un po’ di tutto. Però quello che comunque continua ad emergere è una non soluzione di continuità rispetto al passato, perché in fondo quelli che fanno esperienza di nuova spiritualità provengono da quella che io chiamo religione diffusa, cioè una socializzazione pregressa di stampo religioso. Si tratta di persone che hanno fatto il catechismo, la prima Comunione, la Cresima, si sono sposati in chiesa. Poi naturalmente vi è una sorta di diaspora, di allentamento dell’impegno. Praticamente possiamo dire che i cattolici pleno iure, nel senso di impegnati, presenti nelle pratiche religiose, attivi anche nel sociale, si aggirano intorno al 10%, ed è una cifra, tutto sommato, un po’ aumentata rispetto a quello che è il dato reale. Poi c’è proprio questo aspetto che ho visto riprendere anche da altri, persino dai filosofi, cioè l’incertezza come esperienza di ricerca, come a dire non ho deciso che Dio non esiste e quindi vado a trovarmi qualche elemento che mi aiuti a capire come stanno effettivamente le cose».

Nella dimensione di spiritualità rientrano anche le altre religioni?
«Quella sorta di forte sensibilizzazione nei riguardi dell’orientalismo in voga tra gli anni ’60 e ’70 in Italia ha lasciato le sue tracce, nel senso che oggi per esempio il buddismo ha un seguito non trascurabile. Lo stesso dicasi per l’induismo, anche per i fenomeni migratori, penso in particolare a coloro che provengono dal Bangladesh, o a coloro che provengono dal Nord Africa per quanto riguarda invece l’islamismo. In prospettiva, certamente lo è già oggi, l’islam tende a diventare la seconda religione in Italia».

Cosa si può dire dei giovani e del futuro?
«Quello dei giovani è un aspetto molto molto problematico. Ora ciò che qualche anno fa si immaginava, cioè una catastrofe totale e un abbandono al 100%, invece non si è avuto, come non si è avuta la secolarizzazione che spazzava via non solo la religione cattolica ma anche altre religioni. Quindi anche in questo ambito tutto sommato c’è una tendenza alla riflessione, cioè a non dare per scontato nulla, a cercare comunque di spiegare che cosa succede, insomma a dare un senso, un significato alla vita. Non necessariamente rifacendosi a schemi ortodossi, cattolici o di altre regioni, perché tutto sommato questi fenomeni che noi possiamo verificare a livello di mondo cattolico si ritrovano anche nel mondo ebraico».

Venendo alla Chiesa italiana, penso al Cammino Sinodale che è ancora in corso, la gerarchia ha chiaro il quadro, ha recepito anche queste ricerche oppure no?
«Personalmente ho fatto spedire a tutti i Vescovi italiani copia cartacea dell’ultimo volume perché si rendessero conto di quello che stava succedendo in Italia in termini di religiosità. Ho avuto pochissimi riscontri. Questo fa molto pensare perché innanzitutto è evidente che nei Seminari e negli Istituti superiori di Scienze religiose, l’insegnamento della Sociologia in generale, poi quella della religione in particolare, non è molto praticato. C’è questa carenza di fondo cioè a livello formativo. Trovo poi che neanche nei soggetti più illuminati, e uso questo termine proprio per sottolineare l’importanza della sensibilità anche sul piano scientifico, si riesca a sfondare. La vicenda di una ricerca da noi preparata per il Giubileo del 2000 – poi uscita in otto volumi – e delle difficoltà a finanziare un simile lavoro per il Giubileo del 2025 sono significative da questo punto di vista. Ma tornando alla sinodalità ecco io penso che questo tipo di argomento faccia fatica ad affermarsi. Rispetto al mondo Ortodosso da noi non c’è questa consuetudine perché il laico è sempre stato sottomesso al personale religioso, è un dato di fatto culturale. Persino Vescovi illuminati dicono “ma che bisogno c’è? abbiamo già il Consiglio pastorale, abbiamo già il Consiglio presbiterale, sono sufficienti”: sappiamo benissimo però che queste esperienze di derivazione conciliare hanno avuto poca consistenza e sono state poco praticate».

Quest’estate è tornato alla ribalta, almeno delle cronache giornalistiche, il tema del rapporto tra cattolici e politica.
«L’aspetto della sinodalità potrebbe congiungersi con quello della presenza dei cattolici in politica perché in fondo si tratta di capire che cosa vuole il cattolico italiano. Dato per scontato che la cittadinanza attiva è un obiettivo ancora da raggiungere, guardando ad alcune iniziative nate di recente come quella di “Insieme” è prevedibile che non avranno grande respiro. Difficilmente nascerà ancora una volta un partito dei cattolici, qualcuno dice ci sia la presenza di cattolici in tutti i partiti e che sia questo il loro contributo. Se ne può discutere, come sul rapporto tra religione e politica, però arrivando al dunque la consistenza è di pochi punti percentuali».


Chi è

Roberto Cipriani è professore emerito di Sociologia nell’Università Roma Tre. Sua è la teoria della “religione diffusa”, basata sui processi di socializzazione. È stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia e del Comitato di Ricerca di Sociologia della Religione nell’International Sociological Association, nonché Editor-in-Chief della rivista International Sociology. Nella European Sociological Association è stato Presidente del Consiglio delle Associazioni Nazionali di Sociologia. Il suo ultimo libro è La religione degli intellettuali, Franco Angeli, Milano, 2025.

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