La Cattedrale di Ozieri dedicata a Santa Maria Immacolata
Le norme della Pubblica amministrazione non sono quelle di una Diocesi
di Francesco Mariani

14 Febbraio 2025

6' di lettura

Il Gup del Tribunale di Sassari Sergio De Luca ha rinviato a giudizio Antonino Becciu, fratello del Cardinale Angelo Becciu, il vescovo di Ozieri, Corrado Melis, e altri sette imputati, accusati di peculato e riciclaggio nella gestione di circa 2 milioni di euro dei fondi dell’8 per mille destinati alla diocesi. L’apertura del processo è stata fissata per il 9 aprile prossimo. Il giudice ha accolto la richiesta avanzata nell’udienza dell’8 gennaio scorso dal pubblico ministero Gianni Caria.

Sei imputati, Tonino Becciu, il Vescovo Corrado Melis, il direttore della Caritas don Mario Curzu, il parroco di San Nicola ed economo della diocesi, don Francesco Ledda, Giovanna Pani e Maria Luisa Zambrano, sono accusati di peculato e riciclaggio. Agli altri tre, il parroco di San Francesco, don Roberto Arcadu, Franco Demontis e Luca Saba, sono contestati i reati di false dichiarazione al Pm e favoreggiamento.

Molto critico verso questa decisione è stato sin da subito l’on. Pietro Pittalis, avvocato e membro effettivo della Commissione Giustizia. 

Secondo il Pubblico Ministero di Sassari, Vescovo e Diocesi sono pubblici ufficiali.
«È una tesi illogica prima che infondata. Negli affari di governo della Chiesa cattolica i Vescovi non rispondono allo Stato italiano, ma esclusivamente alla Chiesa stessa, in virtù del principio di indipendenza e sovranità dei reciproci ordinamenti (art. 7 Cost.); e ciò vale anche per l’articolazione della Chiesa nel territorio dello Stato italiano, attraverso, per esempio, le Diocesi, i Tribunali ecclesiastici, ecc.». 

La gestione dei fondi dell’otto per mille è soggetta al controllo dello Stato italiano?
«Non c’è alcuna disposizione del Concordato o del diritto canonico che lo preveda e, anzi, a ben vedere, vi sono disposizioni di segno contrario proprio nella legge italiana (v. legge 20 maggio 1985, n. 222). Sulla base dell’art. 47, le somme provenienti dall’8×1000 dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, liquidate dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali dei contribuenti, divengono patrimonio della Cei e non sono più dello Stato italiano: infatti, fatta salva la scelta del contribuente di destinare tali somme allo Stato per scopi di interesse sociale o di carattere umanitario (a diretta gestione statale), quelle destinate alla Chiesa cattolica per scopi di carattere religioso sono a diretta gestione di quest’ultima. Ciò significa che la Chiesa ha piena autonomia nella gestione delle somme ed è tenuta a risponderne esclusivamente secondo i principi dell’ordinamento canonico. 
Anche i termini utilizzati dalla normativa depongono in favore di un trasferimento della titolarità delle somme alla Chiesa: nella disposizione, infatti, è scritto che lo Stato “liquida”, “corrisponde” e, dunque, la finalità indicata nell’art. 48 rileva esclusivamente per la destinazione delle somme non per le modalità di utilizzazione, né tantomeno per realizzare in capo alle Diocesi la qualifica di Pubbliche Amministrazioni».

Per la Procura della Repubblica di Sassari invece non è così.
«Intanto sgombriamo il campo dagli equivoci e dalle ricostruzioni frettolose. Vi è un solo caso in cui il clero assume la qualità di pubblico ufficiale: nell’atto in cui il ministro del culto cattolico provvede alla celebrazione del matrimonio concordatario. Fatta questa eccezione, nell’esercizio del ministero di culto il clero risponde esclusivamente all’ordinamento canonico e alla gerarchia ecclesiale. Se così non fosse, le conseguenze sarebbero paradossali: non sarebbero infrante, infatti, le sole prerogative della Chiesa cattolica, ma inevitabile sarebbe la confusione delle finalità istituzionali tra Stato e Chiesa, anche nelle ipotesi in cui siano analoghe o coincidenti nei risultati perseguiti. Le modalità di attuazione di finalità solidali non sono necessariamente eguali tra Stato e Chiesa cattolica; anzi, sono proprio diverse, dovendo lo Stato italiano uniformarsi al dettato costituzionale, e segnatamente agli artt. 3 e 97, e la Chiesa ai principi dell’ordinamento canonico. Se lo Stato italiano pretende trasparenza nell’operato delle Pubbliche Amministrazioni, l’ordinamento canonico può, invece, richiedere il segreto, soprattutto se si tratta di tutelare la riservatezza delle persone cui è offerta la carità. Ove dovessero comportarsi come Pubbliche Amministrazioni, le Diocesi dovrebbero bandire gare pubbliche per i sussidi alle povertà, nominare i responsabili del procedimento, designare commissioni giudicatrici, stilare graduatorie, con buona pace del riserbo evangelico che si pone a protezione della dignità delle persone aiutate». 

Il paradosso è evidente e altrettanto evidente è la conseguenza. 
«Ove fosse accolta la tesi della Procura sassarese non sarebbe più necessario verificare nel merito la bontà o meno dell’uso delle somme, ma l’applicazione, da parte delle Diocesi, delle regole di formazione della volontà secondo i principi che governano la Pubblica Amministrazione italiana. Tutte le Diocesi verserebbero in situazioni di responsabilità penale per il solo fatto di aver gestito le risorse provenienti dall’8X1000 senza l’adozione di procedure di evidenza pubblica. Tutte le Diocesi verrebbero chiamate a rispondere di peculato, in quanto i fondi dell’8X1000, in assenza del rispetto dei principi che governano l’Amministrazione italiana, risulterebbero destinati, utilizzati e spesi illegittimamente: per la rilevanza penale dell’operato basterebbe l’erogazione a persona individuata come bisognosa di un solo euro di tali risorse senza il rispetto delle procedure di evidenza pubblica.
Ma vi è di più: le Diocesi dovrebbero applicare le prescrizioni imposte alle Pubbliche Amministrazioni in materia di anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), di comunicazione delle erogazioni per somme oltre Euro 10.000,00 a persone indebitate nei confronti dello Stato affinché lo Stato stesso intervenga con il pignoramento, di scelta del contraente per l’esecuzione di opere secondo procedure di evidenza pubblica, di non discriminazione di genere, ecc.
La Chiesa cattolica non può essere chiamata ad attuare tali principi semplicemente perché la sua missione universale richiede modalità diverse di azione, conformi al proprio ordinamento, ossia quello canonico».

Che dire delle contestazioni fatte ai sacerdoti sulle “false informazioni al pubblico ministero”?
«Lo Stato italiano non può ingerirsi in questioni relative alle nomine dei titolari degli uffici ecclesiastici (art. 3, c. 2, Concordato: “La nomina dei titolari di uffici ecclesiastici è liberamente effettuata dall’autorità ecclesiastica. Quest’ultima dà comunicazione alle competenti autorità civili della nomina degli Arcivescovi e Vescovi diocesani, dei Coadiutori, degli Abati e Prelati con giurisdizione territoriale, così come dei Parroci e dei titolari degli altri uffici ecclesiastici rilevanti per l’ordinamento dello Stato”). 
Dunque, non può chiedersi ad un ministro del culto di riferire in merito a informazioni acquisite nella sua qualità di religioso, perché questo è vietato, in quanto le autorità italiane non possono obbligare i titolari di uffici ecclesiastici a riferire in merito a informazioni apprese nell’esercizio del loro Ministero».

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