
9 Ottobre 2025
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Si parla tanto, oggi, di spopolamento delle zone interne. Non altrettanto avveniva ieri, seppure c’erano le premesse e più di un sintomo di quello che stava per accadere. Per anni abbiamo anche convissuto con il mito della decrescita felice. Giriamocela come vogliamo: la realtà, prima o poi, chiede conto alle ideologie e alla politica degli annunci e promesse.
Pensando all’oggi, riproponiamo due interventi, a firma di Francesco Mariani, apparsi su questo settimanale 35 anni fa. Fecero tanto discutere ma le coordinate di fondo erano valide ieri come lo sono oggi. Come erano e sono assenti proposte e progetti concreti per far fronte ad un declino che sembra inarrestabile.
Il genocidio ignorato
La realtà sociale barbaricina rischia di diventare un pezzo da museo, una manifestazione residuale del tempo che fu. Scorrendo le cifre sull’andamento demografico dei nostri paesi sembra di toccare con mano la fine di un’epoca, un’agonia che non si preannuncia drammatica. Sono paesi dissanguati da un esodo massiccio che investe in particolare le giovani famiglie.
Centri barbaricini un tempo fiorenti sono oggi abitati da una popolazione in larga misura di anziani. Chi può se ne va in città: per chi resta le prospettive di un futuro migliore si assottigliano ogni giorno di più. Interi quartieri sono ormai disabitati, ricordo di un tempo in cui c’era più gente e più vita. Un silenzio irreale regna nelle strade dove fino a non molti anni fa sciamavano frotte di ragazzini.
Tutto diventa motivo per lasciare il paese; il lavoro, gli studi, la ricerca di maggiore tranquillità, l’avvenire dei figli. Quelli che restano sono i disperati, coloro che pur volendo non possono lasciare la loro casa e la loro terra. È una piccola porzione quella che resta per scelta libera, con la speranza che nel futuro qualcosa cambi, con il desiderio che il proprio paese abbia giorni migliori.
È interessante anche notare quante siano nei paesi le attività artigianali che progressivamente chiudono battenti: falegnami, mugnai, officine, calzolai, sarti, barbieri ecc. Oltre le professioni tradizionali, a traslocare sono anche i gruppi socialmente più dinamici, più aperti al nuovo, più disposti a rischiare. Come pure non è di secondario momento che la quasi totalità dei laureati vada a vivere in una realtà diversa dal proprio paese.
I centri della Barbagia espiano scelte politiche in larga parte non fatte da loro, pagano il pedaggio ad un’economia di mercato che li ha automaticamente emarginati, scontano il prezzo della terza rivoluzione industriale. Una rivoluzione più penetrante e più diffusa delle precedenti; di cui si è vittime e non artefici, almeno in Barbagia.
Il crollo demografico delle zone interne del nuorese pone inquietanti interrogativi sia dal punto di vista culturale che sociale. Ogni civiltà si è sviluppata in relazione ad un determinato spazio territoriale e con una determinata base demografica. Quando sono mutate queste due condizioni si è sempre assistito a una modificazione o ad un crollo della civiltà in questione. È risaputo che un elevato tasso di anzianità rende le società meno dinamiche, più conservatrici, più rivolte al passato che al futuro. Viceversa i cambiamenti sono accelerati nelle società giovani, ricche di energie inesplose.
A mio avviso, più i nostri paesi si spopolano e più diventano violenti. Proprio perché forte è, allo stato attuale delle cose, la disperazione. Tutti ci auguriamo che la nave non affondi. Ma quando questo accade, gli ultimi a lasciare il proprio posto sono l’ammiraglio (per un leale senso del dovere) e i predatori (per un cinico interesse). Chi non è né ammiraglio né predatore ha tutti i motivi per prendere la prima scialuppa e abbandonare la nave.
Capita così anche nei nostri paesi. Cresce l’eroismo di chi resta per scelta, e cresce il cinismo di chi resta invece per fare il predatore ed il corsaro. Per chi non è né eroe né predatore, per chi non è pastore oppure nella ristretta casta degli impiegati pubblici o in quella schiera sterminata dei pensionati, ogni occasione è buona per andare via.
Nell’indifferenza del “Potere” i nostri paesi si avviano al loro genocidio. E quando questo si sarà consumato, nessuno di noi sarà più se stesso, quello di prima.
(16.12.1990)
I paesi della crisi
Ha destato qualche perplessità, l’affermazione, fatta in questa rubrica, secondo cui i nostri paesi barbaricini diventano disabitati e più violenti. Mi pare dunque giusto riprendere in modo più argomentato i termini della questione. Oltre la metà della popolazione totale della nostra provincia è concentrata a Nuoro, Macomer, Bosa, Oliena, Dorgali, Siniscola, Tortolì e Lanusei. Gli altri centri, chi più chi meno, stanno diventando dei fantasmi. Demograficamente resiste qualche paese della costa ma la tendenza è quella dell’esodo dai piccoli centri.
La quasi totalità degli omicidi compiuti nella nostra provincia avvengono in questi piccoli centri. In quella decina di nuclei urbani dove è concentrata la maggioranza della popolazione sono pressoché assenti gli omicidi per vendetta. Si tratta di una costante storica chiaramente evidenziabile nell’ultimo scorcio del presente secolo.
È vero che la ricerca della serenità è uno dei motivi predominanti nell’esodo dai paesi. Ma è altrettanto vero che quest’esodo non ha fatto diminuire il tasso di violenza. Gli omicidi sono anzi aumentati in proporzione. Segno che il tracollo demografico non ha portato in questi paesi nessuna serenità.
Paradossalmente il nuovo esodo riguarda in parte minima famiglie coinvolte nelle faide, quelle che in teoria avrebbero un grande interesse nel lasciare il paese alla ricerca di luoghi più tranquilli. Si tratta di famiglie fortemente caratterizzate dalla cultura pastorale, legate alla terra e al bestiame, poco inclini alla mobilità sociale. Spesso pur volendo andarsene non possono, pur trovandosi a disagio non riescono a cambiare posto. Capita così che nei paesi di Barbagia restino gli strati di popolazione più socialmente a rischio. Vi restano in un contesto che è culturalmente più povero rispetto al passato e dove manca qualsiasi mediazione della comunità. Dove gli scontri sono più immediati e diretti rispetto ai tempi in cui la popolazione era più numerosa.
«Un tempo dai paesi andava via la popolazione, ora se ne vanno anche le istituzioni», ha commentalo amaramente Achille Crisponi, presidente dell’amministrazione provinciale. Si pone insomma il problema di un riequilibrio territoriale sia a livello regionale che provinciale. Senza questo riequilibrio i paesi della Barbagia diventeranno luoghi di desolazione.
Non è neppure un caso che taluni dei centri potenzialmente più forti aspirino a lasciare la nostra provincia. Nella logica attuale le realtà urbane forti diventeranno più forti mentre quelle deboli sono progressivamente abbandonate a se stesse.
I paesi dell’interno non sono violenti per natura: sono così come risultato di un processo storico che non ha subito modificazioni strutturali di rilievo. E qui si tocca con mano l’inadeguatezza delle classi dirigenti locali. In 40 anni hanno prodotto quintali di lamentazioni e di buoni propositi ma non hanno posto nessuna condizione storica, reale, per cambiare il corso degli eventi. L’urbanesimo abitualmente crea problemi di ordine pubblico nelle città mentre alleggerisce quelli dei centri circostanti. Da noi sta accadendo esattamente il contrario. Mentre le grosse concentrazioni urbane hanno tassi di violenza tutto sommato fisiologici, i paesi dell’interno sono a livello patologico.
Cala la popolazione e si aggravano i problemi sociali. E un paradosso con il quale fare i conti.
(6.1.1991)