
19 Luglio 2025
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All’attenzione della Consulta in questi giorni c’è il tema dell’omicidio del consenziente e riguarda l’impunibilità di chi materialmente porta a compimento la volontà suicidaria di una persona che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, è affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze che reputa intollerabili, e nello stesso tempo è pienamente capace di intendere e volere.
C’è il presupposto che le sue condizioni siano state verificate da una struttura pubblica del Ssn, che ci sia il parere del comitato etico territoriale competente, che la persona non possa agire in modo autonomo per impossibilità fisica, per assenza di strumentazione idonea. Cambia però la sostanza: non si tratterebbe più di suicidio assistito, ma di omicidio del consenziente. Suicidio e omicidio, purché la volontà del paziente sia libera e lui pienamente consenziente, verrebbero ad essere equiparati in nome della volontà individuale.
Il Codice penale ha sempre distinto le due azioni che sono intrinsecamente disuguali. L’articolo 579 sancisce che «chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni». Il paziente che si suicida mette in capo alla sua coscienza la responsabilità finale dell’atto; nell’omicidio, per quanto effettuato su un paziente consenziente, la responsabilità ricade su chi lo compie. C’è differenza, neanche tanto sottile, tra l’aiutare uno a togliersi la vita e il togliergliela materialmente.
Stiamo parlando di pazienti particolarmente fragili, dipendenti in tutto e per tutto da altri, in una condizione di forte disagio per chi li accudisce quotidianamente. Difficile stabilire fino a che punto si abbia a che fare con richieste davvero libere.
In tema di omicidio del consenziente c’è un groviglio non secondario, di coerenza logica: se lo Stato a una persona sana che chiede di essere uccisa dice di no, e a una persona malata che fa la stessa richiesta dice di sì, sta implicitamente dicendo che la vita di questi malati vale meno di quella di un sano. Depenalizzare l’omicidio, sia pure quello del consenziente, apre le porte all’eutanasia. Indirettamente porta lo Stato a negare forme di assistenza e tutela a malati cronici, anziani, disabili e malati di mente, avvalorando forme di eutanasia sociale o selezione dei fragili e dei deboli. Invece dovrebbe attuare le leggi fatte per garantire l’accesso alle cure palliative e alla “terapia del dolore” accompagnando questo alla “necessità di mantenere i malati terminali in un percorso esistenziale, sostanziato al massimo da rapporti umani ed affettivi”.
Siamo legati alla difesa della vita sempre e comunque o siamo legati al diritto di ognuno di fare ciò che vuole per sé? La Chiesa, sebbene rifiuti l’accanimento terapeutico, è per la difesa della vita come bene primario. La linea del “diritto prima di tutto” è quella di chi ritiene che ognuno è pienamente padrone di se stesso. Il valore della vita, il diritto alla vita, non è una semplice affermazione di principio; è piuttosto la riscoperta quotidiana che o si vive per gli altri e con gli altri o non si riesce neppure a vivere per sé stessi.
«Scegliere la morte – hanno detto i Vescovi – è la sconfitta dell’umano, la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. Non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire».