18 Dicembre 2024
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L’assemblea dei soci del consorzio di tutela del Pecorino Romano Dop ha votato lo scorso 3 dicembre il disciplinare di produzione lasciando invariata la parte relativa alla razza delle pecore. La modifica proposta per la limitazione delle razze non a infatti raggiunto la maggioranza necessaria pari al 66% (maggioranza qualificata): il 39% ha votato a favore, il 29% ha votato contro e il 26% si è astenuto.
All’indomani dell’assemblea abbiamo interpellato il direttore generale di Confagricoltura Sardegna Giambattista Monne.
Direttore, cosa ci dicono queste percentuali nella votazione?
«Ci dicono che sostanzialmente gli industriali hanno fatto ciò che fa l’industria, gli interessi di imprese che non vogliono troppi lacci, mentre il sistema cooperativo che dovrebbe fare gli impressi dei produttori (quelli della produzione primaria), è andato completamente diviso.
Detto ciò è il sistema produttivo nel suo complesso che ha perso un’opportunità, quella di rendere coerente tutta la politica regionale in materia di produzione ovina e di tutela delle produzioni derivanti dall’allevamento dell’ovino. Noi abbiamo da un lato tre prodotti a marchio, Pecorino Romano, il Fiore e il Pecorino sardo e dall’altra un sistema produttivo, almeno quello della produzione primaria, estremamente frammentato. È fatto di una moltitudine di imprese che viene sostenuto da misure comunitarie, sia nell’ambito del primo che del secondo pilastro, che sono state strutturate e rivendicate in funzione di un’organizzazione degli allevamenti del sistema produttivo regionale che è quello storico, basato su forme di allevamento e su razze presenti nel territorio. Si è persa un’occasione in questi termini, cioè rendere coerente il sistema produttivo e le politiche di cui beneficia. Se noi oggi diciamo che il Pecorino Romano può essere prodotto da latte purché del territorio – per carità è verosimile che sia prodotto con latte di pecora sarda e non penso sia diverso –, stiamo perdendo l’occasione per dire che è certamente utilizzato latte di pecora sarda, tutto qui».
Qualche anno fa, però, nel 2021, l’assemblea dei soci votava all’unanimità la decisione che gli allevatori avrebbero dovuto riconvertire entro 7 anni i propri allevamenti nel caso fossero presenti razze estranee a quelle indicate nel disciplinare. Non è in contraddizione con quanto accaduto quest’anno?
«Intanto va fatta chiarezza, il disciplinare in vigore e pubblicato in Gazzetta ufficiale è quello del 2009 nel quale si dice che l’unica condizione richiesta è la provenienza geografica del latte. Per la Sardegna l’intera regione, mentre per la penisola, il Lazio e la provincia di Grosseto. A partire dal 2009 sono maturate altre sensibilità, ci dobbiamo ricordare anche che da allora abbiamo vissuto alterne vicende in termini soprattutto di prezzo del latte e di tensioni che ne sono conseguite. La valutazione del 2021 è sostanzialmente l’indomani della crisi del 2019, che è stata davvero difficile e profonda per il comparto ovino. L’idea era quella che definendo un elenco di razze si potesse arginare quello che si diceva, anche se almeno io non ne ho mai avuto le prove, e cioè che arrivasse latte dal Continente verso al Sardegna».
Ma è un rischio paradossalmente più forte oggi dal momento che il prezzo del latte è più alto in Sardegna rispetto al resto d’Italia.
«Come organizzazione ribadisco che abbiamo perso un’opportunità come sistema produttivo regionale. Aggiungo un’altra riflessione. Il paesaggio rurale sardo, per una buona fetta del territorio regionale, di fatto è stato plasmato dalla presenza degli animali al pascolo; se noi oggi andiamo a introdurre nel sistema produttivo dal punto di vista delle politiche la possibilità che il pascolo non sia necessario, stiamo negando queste scelte o le stiamo mettendo comunque in discussione. In questo senso è necessario che anche la politica regionale prenda una posizione sulla vicenda, perché altrimenti dovremmo rendere coerenti in funzione di questo anche le misure dello Sviluppo rurale e del FEAGA (il Fondo europeo agricolo di garanzia che finanzia i pagamenti diretti per gli agricoltori ndr) che pagano in funzione del fatto che gli animali sono al pascolo. Penso per esempio alle misure per la difesa del suolo con la conversione delle superfici a seminativo in prato pascolo per agevolare l’estensibilizzazione delle produzioni. Penso alla misura del benessere degli animali che è stata costruita in funzione di una specie, anzi di una razza prevalente in Sardegna. Ma se oggi in Sardegna accetto anche che vengano allevate altre razze, allora quella misura deve prevenire un altro genere di impegni. Stiamo parlando di ipotesi, attenzione, perché comunque il rapporto fra gli animali di altre razze e il patrimonio ovino regionale è dello 0,01. In Sardegna forse non arrivano a 50.000 gli animali delle altre razze, però è pur vero che è necessario ribadire dei principi».
Altre razze ovine sembra di capire producano più latte, questo significherebbe una maggiore produzione di formaggi: ma non andrebbe a discapito della qualità?
«In Sardegna la gran parte del latte prodotto viene destinata alla produzione: circa due terzi vengono destinati per la produzione del Pecorino Romano e degli altri pecorini, poi l’altro terzo viene utilizzato per altri formaggi. Da questo punto di vista il rischio che il Pecorino sardo perda di qualità io francamente non lo vedo perché quel latte può essere tranquillamente impiegato per fare le altre produzioni. Poi c’è un altro aspetto di tipo tecnico che vale per le razze ad alta produzione lattifera così come può valere per la pecora di razza sarda se è allevata in condizioni diverse rispetto al pascolamento o all’utilizzo di determinate essenze. La qualità del latte passa per ciò che l’animale pascola o comunque mangia. Per cui, se queste razze sono assoggettate ad un regime di allevamento intensivo, quindi stanno in stalla, è evidente che la qualità del latte ottenuto è diversa rispetto a quella che si ottiene dal latte ottenuto da pecore che pascolano. Viceversa se tenessi una pecora di razza sarda in stalla la qualità del latte non sarebbe comunque superiore».
L’ultima assemblea ha anche approvato la modifica relativa all’approvvigionamento alimentare degli animali che dovrà provenire almeno per il 50% dalla zona di origine.
«Se ho strutturato un sistema di allevamento che si fonda principalmente sull’uso delle essenze e delle produzioni foraggere del territorio l’integrazione alimentare diventa una componente non prevalente, quel 50% non lo vediamo come un aspetto restrittivo. Non è quello l’aspetto critico».
Qual è allora?
«Dal punto di vista mediatico si è caricato troppo sul tema delle razze. Io insisto nel dire che doveva essere l’occasione per veicolare attraverso un prodotto un sistema produttivo. Quasi il 100% degli allevamenti è in forma estensiva, le condizioni sono le migliori in assoluto rispetto ad alte regioni italiane. Questa deve rimanere la nostra forza: raccontare con un prodotto la sua storia e il metodo di allevamento».
In conclusione: siamo alla fine di un anno critico dal punto di vista climatico e da ultimo per l’epidemia di Lingua blu. Quale bilancio possiamo trarre?
«Restando in ambito zootecnico è stato davvero un anno difficile. La crisi idrica è forse l’aspetto più drammatico perché noi veniamo praticamente da un anno intero di siccità estrema. È venuta meno tutta una componente alimentare, gli animali a un certo punto della stagione non potendo più brucare da terra iniziavano a brucare dalla macchia che però era entrata in una condizione cosiddetta di “protezione”, come si notava chiaramente dal colore che ha assunto. Per questo gli allevatori hanno dovuto iniziare ad integrare e sostenere gli animali già a partire dagli inizi dell’estate. In più poi si è aggiunta la Lingua blu. L’epidemia è arrivata trovando le greggi già debilitate per effetto delle carenze alimentari e delle condizioni di vita in generale. Un conto è avere erba fresca o germogli freschi a disposizione, altra cosa è non averli proprio e per quanto uno possa integrare con foraggio o fieno o granelle o concentrati, il regime alimentare e quindi le condizioni generali dell’animale ne hanno risentito. C’è anche una responsabilità del sistema pubblico e della struttura sanitaria nell’attuazione della profilassi vaccinale che avrebbe dovuto concludersi entro agosto ma in realtà ad agosto era appena iniziata. Per cui il bilancio, almeno dal punto di vista sanitario, è assolutamente negativo e preoccupante. Anche con gli strumenti di tipo compensativo si è arrivati lunghi. Sulla siccità abbiamo un parere negativo sulle misure individuate perché da un lato ci sono stati interventi per tutte le aziende, dall’altro è stato previsto un sistema di voucher a beneficio degli allevatori discriminando fra comparti produttivi».
Insomma, il quadro non è a colori.
«Il quadro è quello dell’agricoltura sarda. Attenzione, io non voglio essere eccessivamente pessimista. Però questa è la realtà della Sardegna, di anni così difficili che abbiamo incontrato tanti, anche con una certa periodicità».
Novità. Il presidente del Consorzio Gianni Maoddi
«Avvicinare nuovi mercati»
Non cambia la questione delle razze, che era forse quella più scottante, ma ci sono altre novità. «Non cambia assolutamente niente nell’allevamento delle pecore per la produzione di Pecorino Romano – ha detto ai microfoni di Radio Barbagia il presidente del Consorzio Gianni Maoddi –. Quello che succede da 2000 anni continuerà a succedere, il latte prodotto nelle zone di origine verrà utilizzato per la produzione del Pecorino Romano. Ci sono altri cambiamenti che ritengo importanti perché servono per avvicinare il prodotto ai nuovi mercati. La deroga per la percentuale di sostanza secca che deve essere utilizzata per l’alimentazione del bestiame; è importante che scenda dal 100% al 50% in quanto purtroppo la regione Sardegna è carente di alimenti e di prodotti che servono proprio per alimentare il bestiame, questo è fondamentale perché se no rischiamo veramente di trovarci in situazioni di disagio nei confronti di chi ci controlla. Abbiamo inserito delle modifiche relative all’utilizzo del sacco sottovuoto, all’utilizzo di fermenti per integrare la flora batterica di questo prodotto e altri piccoli “tecnicismi” che servono a far sì – conclude Maoddi – che il consumatore abbia un prodotto di altissima qualità».