Può morire un paese dell’interno?
di Redazione

4 Novembre 2025

9' di lettura

Me li immagino i nostri cugini bittesi dietro alla bara infiorata pagata dal Governo, dove sopra c’è una fascia nera con scritto Orune fu. Commossi ma senza lacrime diranno che in fondo non eravamo così cattivi e magari diranno che fra gli orunesi c’erano anche delle brave persone. Almeno anticamente. La bara l’ha prevista il Governo nel suo Piano Strategico Nazionale per le Zone Interne di marzo 2025 nel quale, per i paesi giudicati in fase di regressione demografica irreversibile, sono previste caritatevoli misure di accompagnamento al titolo di viddha ispèrdida, paese scomparso. Vengono i brividi solo al pensiero che qualcuno possa solo pensare una cosa del genere. Nel Medio Evo era la peste che faceva scomparire i paesi, leggendo questo documento qualche anziana paesana, rivolto a chi lo ha redatto non mancherà di esclamare: sa pesta che los vochet!

Orune è il mio paese di nascita e di crescita, non ci posso trascorrere la mia vecchiaia. Se guardo i dati della sua demografia, 60 anni fa aveva 6.000 abitanti, oggi ce ne sono 2.000. Non ha il mare, non ha grandi pianure, non ha grandi vigneti, non ha strade scorrevoli, non ha una zona industriale né artigianale. Antonio Pigliaru, figlio di Orune, definiva i suoi abitanti in perenne atteggiamento di difesa, difesa dagli altri, difesa da sé stessi. Per il lungimirante Piano del Governo la sentenza sarebbe implacabile: Orune non ci sarà più.  

Allora immaginiamolo questo paese morto, di case vuote con i venti, tanto familiari quando era vivo, che adesso litigano per occupare le vie, le piazze, i tetti cadenti, le poche porte rimaste attaccate agli stipiti che sbattono forte sui muri chiamando a gran rumore il vecchio padrone: perché mi hai abbandonato? E di notte in piazza ci saranno le anime dei morti che protestano perché non c’è più nessuno dai quali farsi sognare o raccontare o persino maledire. I morti hanno bisogno di essere raccontati dai vivi, sono morti per quello, da vivi non contavano più nulla ma da morti sono eroi, saggi, balentes, sono miti, ma solo se qualcuno li sogna e li racconta. 

Sembra una pagina di un romanzo apocalittico, eppure questo scenario è nero su bianco in un documento ufficiale del Governo e bisogna prenderlo sul serio, perché se si entra “nell’obbiettivo 4” dei paesi destinati a morire tutto verrà di conseguenza: niente aiuti a crescere, niente sviluppo, niente futuro, niente accanimento terapeutico. Chi è ancora in tempo scappi e si metta in salvo in paesi che avranno un futuro. Lo ha scritto il Governo. 

Il documento è talmente surreale su quella parte che ben pochi lo hanno portato alla ribalta dell’informazione. Si è però levata alta la voce della Cei che rimarcando quanto è previsto in quel documento «…un invito a mettersi al servizio di un suicidio assistito…», in una lettera al Governo stigmatizzano tra tante e preoccupate osservazioni la necessità di un approccio totalmente opposto: «Chiediamo perciò che venga esplorata con realismo e senso del bene comune ogni ipotesi d’invertire l’attuale narrazione delle aree interne. Sollecitiamo le forze politiche e i soggetti coinvolti a incoraggiare e sostenere, responsabilmente e con maggiore ottimismo politico e sociale, le buone prassi e le risorse sul campo, valorizzando un sistema di competenze convergenti, utilizzate non più per marcare differenze, ma per accorciare le distanze tra le diverse realtà nel Paese».

Ma se il futuro non ci sarà per chi oggi popola questi paesi, al loro futuro guardano altri occhi interessati. Sono occhi avidi puntati sulla nostra terra di Sardegna, anche su Orune, occhi che hanno la pazienza dei predatori, senza fretta. Puntano alla nostra vera ricchezza, l’ambiente, la purezza dell’aria, i boschi incontaminati, le sorgenti pur sofferenti ma generose di acqua cristallina, il nostro sughero, le nostre ghiande, le nostre carni, i nostri formaggi, le vestigia degli antichi abitatori, i nostri canti e i nostri silenzi, i costumi e i riti. Sono questi l’oro di domani, è solo questione di tempo, il mare è già preso, le coste anche, ma come ai tempi dei conquistatori romani rimane l’interno, un tempo guerriero e fiero, oggi fiaccato, deluso, insicuro e infelice.  

Orune ha oltre 12000 ettari di questo terreno intonso rispetto all’inquinamento, all’urbanizzazione, ai rumori, ha una chiesa che è la più bella dell’intera provincia e di metà Sardegna. Sarà un bel boccone per quegli sguardi avidi. Davvero vogliamo, vogliono coloro che ci vivono, abbandonare al vento quelle case, quei boschi, quei paesaggi da favola? Non sono più capaci di fare figli?  Di nutrirli d’orgoglio e di fierezza, di forza fisica e di volontà d’acciaio per difendere la loro terra aspra e feconda? 

La nostra è una storia tormentata, ci sappiamo far male in modo atroce, viviamo lunghi periodi di tristezza, abbiamo il tarlo del sospetto che non ci fa dormire ma poi, quasi di nascosto, senza clamore festeggiamo le lauree, i dottorati, i traguardi del pensiero e della ragione, ma quelle terre, quelle querce, quelle sorgenti piangono la nostra distrazione, la nostra assenza, le gocce di sangue che troppo spesso li hanno bagnati. Rivedendo recenti e antichi documenti sul paese vi si leggono innumerevoli tentativi di far diventare quei luoghi un alveare di uomini, donne, animali, piante che producono il miele del buon vivere e della pace. Ecco una delle prime cooperative pastori nel 1937, con un lungo periodo di concorso popolare per farla vivere e valere come vero gioiello. Alla fine degli anni ’60 Il più importante tentativo di imporre una svolta ai terreni comunali e non solo, con un importante progetto di miglioramento di 1200 ettari che prevedeva già allora oltre un miliardo di spesa dell’allora Cassa per il Mezzogiorno. Si era lavorato, si era anche raggiunto un difficile accordo con i pastori, sembrava di essere ad una vera svolta ma poi, per un boccone d’erba le recinzioni vennero abbattute e con esse la possibilità di avere tutti quei soldi. 

Sui terreni comunali i tentativi non finirono lì, le amministrazioni che seguirono lavorarono sodo e con grande impegno per imprimere una svolta evolutiva alla pastorizia e all’economia orunese, persino con il progetto di realizzazione di una Azienda Speciale e titoli di giornale come 40 miliardi per Orune, poi altri 8 e poi ancora 4 e ancora annunci, idee, assemblee comunali, propositi, ma poi? Per portare avanti le riforme non bastava fornire un trattore o una recinzione, bisognava prima bonificare la componente umana, testardamente individualista, sospettosa, fragile nei propositi di riforma, tenacissima e irremovibile se il vento girava al contrario. Tutto quel travaglio, quel combattere, insistere sembra essersi condensato soltanto in vuoti titoli di giornale, quasi nulla di più. 

Oggi si va e si torna dall’ovile con la macchina, la stalla e la mungitrice ce l’hanno coloro che hanno terreni privati e buona volontà. Nei 6.000 ettari di salto comunale non esiste corrente elettrica, qualcuno ha i pannelli fotovoltaici nella casetta che ha sostituito sa Pinnetta, forse solo per alimentare una lampadina. Per il resto la vita scorre come 60 anni fa. Intere cussorge del paese non vedono più un solo pastore, il bosco e sottobosco ha sostituito le bestie al pascolo, cresce ciò che domani piacerà a chi verrà ad acquistare o usucapire. O al fuoco.  Mi dicono che in paese non si trova un chilo di formaggio da comprare! 

Ma può davvero morire un paese? Sì, sì, può morire, muore se muoiono non fisicamente ma idealmente i suoi abitanti, le loro coscienze, le loro storie, i loro sogni, il loro orgoglio. Altre volte gli orunesi sono corsi al campanile per chiamare a raccolta contro chi usurpava i loro beni e calpestava i loro diritti.  Hanno vinto su di loro e sempre le terre e il lavoro erano il campo di battaglia. 

Oggi o dopodomani è la stessa esistenza del nome del paese in pericolo, sembra un cattivo sogno e invece è la campanella dell’ultimo giro al podista a dire: svegliati paese, costruisci tu il tuo futuro, realizzalo, difendilo, i paesi devono essere eterni, come lo sono i loro miti e i loro eroi.  

Un recente prezioso lavoro di analisi e indagine svolto dallo studio del dottore agronomo Giuliano Sanna ci illumina e fornisce dati utilissimi sul paese e sulle terre civiche di Orune per impostare una nuovo vero grande progetto, per tentare ancora un volta di proiettare la pastorizia e l’agricoltura orunese fuori dalle secche della storia, per rispondere a quel Punto 4 dello sciagurato Piano Strategico delle Zone Interne, per comunicare prima di tutto a se stessi, oltre che al Governo, che le comunità millenarie cariche di storia non possono morire. Anche su quei terreni orunesi può crescere e fiorire il turismo, l’artigianato, l’agroalimentare, la cultura e tanto altro.  Ma non spetta agli altri decidere della propria sorte, spetta agli stessi abitanti, ai suoi rappresentanti nelle istituzioni, ai suoi intellettuali, artisti, operai, genitori, alle sue donne e ai suoi uomini impegnarsi in questa dura ma sacra battaglia di salvezza. Urge un piano straordinario di formazione per i ragazzi e giovani che si accingono ad affrontare la vita sociale, formazione sui valori della vita, sui rapporti interpersonali e professionali, sui rischi della conflittualità, sui vantaggi della cooperazione e condivisione delle scelte e delle decisioni. Il paese deve rinascere senza morire.

Sebastiano Mariani

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