Quelle estati fa
di Angelo Sirca

24 Luglio 2024

3' di lettura

La prima vacanza di cui ho ricordi la passai non a Porto Cervo o Porto Rotondo ma a Porto Alabe. Giochi in spiaggia e ore in ammollo. La sistemazione dell’ombrellone mi affascinava: vedevo tanti ingegneri affaccendarsi per fissarlo a prova di tornado, altri lo sistemavano in base a come presumevano avrebbe “girato” il sole salvo poi ritrovarsi sotto gli implacabili raggi. Prima del bagno l’attesa, perché avanti di buttarsi in acqua dovevano passare alcune ore dall’ultimo pasto. C’era la possibilità del digiuno ma non era contemplata. 

Le prime scottature e le prime simpatie (chissà come sarà ora quella bambina tedesca dagli occhi azzurri?). Il pescatore passava presto col pesce che ancora non aveva esalato l’ultimo respiro. La fila al posto pubblico per telefonare, i cellulari erano ancora di là da venire. Con pazienza si attendeva il proprio turno: chi non ricordava il numero e ne faceva uno sbagliato, chi cercava nella borsa dalla quale estraeva di tutto tranne il foglietto dove aveva appuntato il numero, chi aveva messo pochi gettoni e la telefonata cadeva quando il “Come stai?” non aveva ancora il punto interrogativo. In quei giorni avevo sentito frasi in lingue a me sconosciute ma non ne fui sconvolto, infatti nel vicinato dove ho passato l’infanzia nei mesi estivi c’era una babele di idiomi, tanti gli emigrati che tornavano per trascorrere le ferie: la erre francese si mischiava alle impennate del tedesco, tutte o quasi però con accento sardo barbaricino. Arrivato il giorno del rientro, caricata la macchina, si lasciò il posto col sole in fronte, un pizzico di malinconia e una promessa: a Porto Alabe ci sarei ritornato. Una volta a casa pensai: chissà come sarà fresco il letto, da 15 giorni non ci avevo dormito. Ma la delusione fu grande, il materasso era caldo come se mi fossi alzato 5 minuti prima: non sapevo allora che in paese arrivassero le correnti ottanesi.

E l’anno di Si tu no vuelves (Se tu non torni) di M. Bosè tornai a Porto Alabe. La stagione era avanzata, le persone non erano tante, la bandiera rossa avvisava gli audaci e gli incoscienti di non esagerare. Chissà se quella giovane dagli occhi azzurri e i capelli chiari, mentre in spiaggia ascoltava musica con le cuffiette, che si alzò d’un tratto e si mise a ballare era quella bambina di circa venti prima.

Dalla terrazza della casa dove abitavo, mentre quasi tutti riposavano, il pomeriggio osservavo il mare e il suo eterno movimento, rapito dalle parabole dei gabbiani (non si erano ancora tutti trasferiti nelle discariche) che sfioravano il mare, qualche piccola barca con la sua vela leggera, e come canta Battiato: “di tanto in tanto un grido copriva le distanze”. Il sole rosseggiante e maestoso calava la sera in quell’ orizzonte senza confini, le onde continuavano il loro sciabordio, e qualche grillo, giullare dell’estate, friniva giulivo. Quella volta mi ero portato appresso Orgoglio e pregiudizio di J. Austen, da allora pregiudizi ne ho perduti parecchi, l’orgoglio, che non è spocchia, no.

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