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L’Ortobene
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di Nuoro n. 35/2017 V.G.
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
La storia è risaputa, raccontata in tutte le lingue del mondo. A scuola, il maestro chiede all’ alunno, in tono non così conciliante, come usava un tempo:
– Tue! Chi ha scoperto l’America?
– Non sono stato io signor maestro.
– Ah, gai est? Cras accumpanzatu dae mama tua!
L’ indomani, la madre prova a giustificare il figlio: – Da l’ischites su ma’ comente sono sos pitzinnos. Prima achen’ sas cosas e pustis si lar negana.
L’ America tesse molti inganni e la storia va ben oltre le barzellette.
C’era una volta l’America, le Americhe. Molto tra inizio Novecento e immediato secondo dopoguerra contava l’America del Sud, l’Argentina in particolar modo. Era un luogo verso cui emigrare per diventare ricchi, per ritornare famosi. La storia e quell’America esperite sulla propria pelle diranno quanta verità contenga il proverbio dell’andare «a chircare pane menzus de tricu».
Nel mentre, risalendo dal Sud al Nord iniziò ad arrivare qui da noi, anche nella geografia del paese portatile, il sogno americano, soprattutto quello proveniente dagli Stati Uniti. Non che si presentasse in accezione artistica, letteraria o di chi sa quale improvvisa eredità. A Nuoro ancora si tramanda la figura di Culu de America, risalente al primo ventennio del secolo scorso. Era uno dei «deboli di mente», scrive Nannino Offeddu in Immagini di Nuoro paese (1991) «che di volta in volta si susseguirono sul palcoscenico cittadino». Come Fileddu, Bumbuddu, Gigiotto, Mammachille, Gherdone, Chentu Cupas, Pelleredda e altri. Il personaggio in questione era così chiamato perché il fondo dei suoi pantaloni, chiaramente di risulta, era una pezza di sacco con su impressa una mano a stelle e strisce, rossa e blu, che ne stringeva un’altra. Una parte considerevole del sogno americano.
Come anomalo scambio, di lì a qualche decina d’anni, l’oranese Titino Nivola dovette migrare dall’Europa a New York anche per fuggire alle leggi razziali, la moglie Ruth Guggenheim era ebrea. Fu l’America a rivelare al mondo intero la grandezza e la bellezza dell’arte, recuperata a sa matriche sarda, di Nivola.
Poi venne il secondo dopoguerra, l’America rivelata all’Europa specie dopo lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, dagli aiuti del Piano Marshall che servirono a far uscire l’Italia dalle macerie della guerra, dalla fame, dalla miseria. Farina latte, sa pappa americana, formaggino giallo, tonno in scatola, cioccolato, gallette a doppio sapore dolce e salato. E su DDT (para-diclorodifeniltricloroetano) per debellare la malaria. Anche quello proveniva dall’America. DDT: la sigla ben impressa in nero. Fu pompato e spruzzato sui muri delle case, nelle stalle, sulle strade bianche e asfaltate, sui corsi d’acqua e sugli stagni dove si ammassavano e prolificavano le zanzare. «Sor de s’Erlas», così chiamavano gli operai dell’Ente regionale lotta antianofelica, contra a sa zizzula, si aggiravano per i paesi e le campagne con le taniche in spalla lasciando dietro di sé il caratteristico odore acre del DDT. Non avevano né divisa né tuta. Vestivano indumenti poveri: pantaloni, camicia e giacca pieni di pezze, in testa un berretto sformato, scarponi pesanti ai piedi.
Era quello il tempo de sa roba americana, vestiario, tovaglie, fazzoletti, pezzi di stoffa alla rinfusa. Fu per qualche tempo il commercio, con nulla fortuna, di mio padre. Sa roba americana la portava lui stesso, viaggiando in su Culumbu di colore rosso e nel traghetto Olbia-Civitavecchia, da Napoli. La prendeva dal magazzino di signor Simone, il principale raccoglitore in uno dei quartieri spagnoli di Partenope, la stessa umanità descritta da Curzio Malaparte, Domenico Rea (Spaccanapoli e Gesù fate luce), adesso da Viola Ardone nel fortunato romanzo Il treno dei bambini.
Col tempo, a tutti quei segni d’America si sono aggiunti altri significati. Dire «a s’americana» indicava un fare disinvolto, nel muoversi, nell’atteggiarsi, una disinvoltura però forzata, una gestualità scomposta rispetto a quella codificata e rigida che imponeva la tradizione, specie quella della civiltà contadina e pastorale. «A s’americana» erano diversi abbandoni di corpi, giovani e meno, su cassoni di camion, di carrelli di trattore, stesi sul cofano delle macchine, di ritorno da una e più Paskiseddas. Passate quelle malariche altre erano le febbri. Ci furono occasioni e situazioni che «sos ballos a sa civile», quelli che sostituivano su ballu sardu quale si era sempre conosciuto, furono detti «a s’americana». Poi gradualmente invalsero «geghe geghe», «twist», «gambale twist» dei Bertas, «tue in artu mare navighenne» eccetera. Tutto in aura britannica allargata, andata e ritorno Oceano Atlantico-Mediterraneo.
Americanata, americanatas, così venivano chiamati i film western. Per esteso passarono a significare colossali risse, da saloon, che si verificavano in tempi a volte allargati, a volte ravvicinati, in bettole, bar, feste, sagre, religiose e no.