Angela Maccioni e Raffaello Marchi, l’umanesimo nascosto di Nuoro
Nuoresi e intellettuali, entrambi perseguitati al tempo del fascismo
di Natalino Piras
Raffaello Marci. In basso: Angela Maccioni
5' di lettura
20 Dicembre 2020

Erano moglie e marito: Angela Maccioni (1891-1958), Raffaello Marchi (1909-1981). Nuoresi entrambi. Intellettuali di alto profilo, portatori di un umanesimo di idee e di fatti. Furono entrambi perseguitati al tempo del fascismo e dopo non ebbero vita facile.

Era l’ultimo anno di liceo, 1970-71, e noi proletari di 3ª D, non uno nuorese di città, eravamo diasporati nella diaspora, nella parte di basso del Museo del Costume. Là allora si faceva scuola, inagibile la sede di via Dante, sfrattati persino dalla “sezione staccata” di Mughina.

Un giorno, all’ora di Storia dell’arte, materia di poco importo, si presentò un professore che non avevamo mai visto. Era già sulla sessantina, di estrema magrezza, vestito con un completo stazzonato, sciarpa lunga, capelli ricci che ingrigivano, occhiali a montatura tonda. Era Raffaello Marchi. Fu di pochi preamboli. Disse che non avrebbe seguito alcun programma ministeriale e che sì Fidia e Prassitele erano importanti. Ma di più per noi sarebbe stato utile sapere dell’arte sarda. Era la prima volta che sentivamo parlare di menhir, di navicelle votive e dee madri.

Raffaello Marchi ci fece conoscere Nivola. Parlava di piazza Sebastiano Satta, spiegando di come il bianco dei muri circostanti fosse per i sardi colore di morte. E ancora pozzi sacri e acque lustrali. Tutto detto con competenza e passione coinvolgente. Il professore era una persona mite. Ma guai alle sue arrabbiature. Lo sentivano per tutto Sant’Onofrio.

Avrei incontrato Raffaello Marchi anni dopo, nel 1979, all’inizio del nuovo corso della Biblioteca Satta. Ma ormai sapevo già molto di lui. Del fatto che fosse ricercatore, antropologo, grande conoscitore della storia del cinema e dei suoi linguaggi. Profondo conoscitore di riti e miti, fondamentale un suo saggio sulle maschere barbaricine nella rivista “Il Ponte”, nel 1951. Dice del mistero dell’erkitu che origina dalla notte dei tempi raffigurato in un bronzetto chiamato “Essere” o “Animale fantastico” o “Toro androcefalo” ritrovato nel 1935 da un contadino che arava i campi nelle campagne di Santu Lisei, territorio di Nule. Scriveva ancora Marchi nel 1962 a proposito dell’érchitu-boe muliàke che «a un grado più complesso d’immedesimazione abbiamo il travestimento bovino dei vari boves, boetònes, merdùles, bumbònes, mamutones». Tutte maschere del carnevale. E tante altre scritture, di impegno politico, di intellettuale militante, le idee per cui Angela Maccioni e Raffaello Marchi pagarono sempre di persona.

Si sposarono nel 1935. Angela, per definizione dello stesso Marchi, era una maestra “resistente”. Insegnò ai bambini delle elementari sino al 1953, a Mamoiada, a Orani, a Nuoro. Maestra resistente è come un sigillo. Raffaello Marchi, di quasi vent’anni più giovane della moglie, condivise con lei l’antifascismo come condizione e come metodo, come idea di resistenza al “vivere inutile nel deserto di Nuoro”.
Non erano i soli antifascisti nel ventennio anche se erano pochi. Ai direttori didattici e agli ispettori scolastici che le obiettavano il fatto che i suoi bambini poco e nulla sapevano della grandezza del fascismo e del duce, Angela Maccioni rispondeva che non poteva adeguarsi alle direttive del regime. Nel 1937 venne incarcerata, rilasciata e poi licenziata dall’insegnamento. La causa fu un biglietto da lei indirizzato a Graziella Secchi, moglie di Dino Giacobbe, per informarla della morte di “Bande Nere”, l’anarchico Giovanni Dettori, caduto nella guerra civile spagnola sul fronte di Teruel. Angela Maccioni verrà rilasciata il 26 maggio e proposta per il confino. Fu salvata dal prefetto Achille Martelli, “fascista tiepido”, dal certificato della dottoressa Adelasia Cocco, e dal commissario di polizia Giuseppe Oddo. Costui tolse una rosa dal mazzo di fiori che Raffaello Marchi aveva portato alla moglie in carcere e lo offrì alla donna “assumendosi la responsabilità del gesto”. Tutti segni nascosti da riportare alla luce. Il finale di questa storia lo racconta Salvatore Cambosu, lo scrittore dell’impareggiabile Miele amaro. Era inverno. Cambosu arrivava da Cagliari in una Nuoro coperta di neve. Lo ospitarono Angela Maccioni e Raffaello Marchi nella loro casa di via Deffenu. «In una culla rettangolare scavata al centro del pavimento, dorme sotto la cenere o s’arruffa come un gallo il fuoco di legna. Nel caminetto bruciava legna di bosco con odore aromatico, quasi liturgico». Come un racconto di Natale in quella famosa nevicata del febbraio 1956. C’è un grande senso di sarditudine come nostalgia e come narrazione prospettica. «Angela Maccioni – dice Cambosu – credeva in Dio e non lo nominava invano, secondo il costume dei Sardi genuini. Predicò sino alla fine il Cristo dei poveri». Raffaello Marchi le fu compagno in questa forte predicazione.

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