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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani

Borgopio, XIV rione dell’Urbe, a confine e dentro il Vaticano, vicende alte e basse, luminose e scure, via di passaggio, luogo di arti e mestieri, tutto quanto come parola, gesti, teatro di strada può essere rappresentato e detto sul Papa che governa la Chiesa ma che è pure vescovo di Roma.
Borgopio esisteva anche al mio paese. Il fondatore della taverna sotto il Corso, frequentatissima negli anni Sessanta-Settanta del Secolo scorso, colui che le diede tale nome adatto a un paese cattolicissimo, di preti e missionari, canonici e Vescovi, zelanti dell’Azione Cattolica e tante suore, fu Pretu Pala, anche lui fratello di un sacerdote, don Giorgio Pala. Famoso il moscato di Borgopio, di produzione propria, dalle vigne di Su Pratu: il Baciamisubito di contrastante effetto. Non era vino da Messa.

Chi sa quante parole sui Papi a Borgopio. Molte di queste le ritroviamo in Sos sinnos (1983), il romanzo di Michelangelo Piras pubblicato postumo, scritto in limba vitzikesa, che testimonia di quanto la figura del Papa sia indispensabile nelle narrazioni della civiltà rustica che riesce a far dialogare la scuola istituzionale con quella impropria dell’ovile e della campagna. Nel romanzo, l’ultimo capitolo, il quinto, A sa Libra (che è il luogo dell’utopia), apre così: «Pio XXII eniat a sa Libra sudoratu e assagatatu a lamentu ca su caminu pro arrivare dae Roma it troppu longu e malu». Pio XXII affronta quel viaggio periglioso perché ha bisogno dei consigli di Bachis Pinna, padre di Milianu, l’io narrante, su come esercitare l’arte del buongoverno da parte della Chiesa. Narat Bachis a su Papa: «Chie istat inoche sas ideas las a’ craras che su sole cando si pesa’ dae su monte ‘e Luvula. Est a tie e a sa tzente che a tie chi si cuffundene sas ideas ei sos sentimentos, ca su sole no lu ider mai cando si pesat e ca no non’ restar mai solu a pessare». Un bell’azzardo quello di Bachis Pinna consigliere del Papa.
Il personaggio rustico creato da Miali ‘e Crapinu oltre che sul genio narrativo dell’autore basa su un contesto fatto di modi di dire, proverbi, reale e immaginario che hanno come referente il Papa, non una persona specifica – Pio XXII de Sos sinnos non è stato ancora eletto – ma il segno.
«B’istas, b’as a istare che Papa»: a significare comodità, vita senza affanni e tribolazioni. «A si picare sas terras de su Papa»: l’estensione del Vaticano visto come un latifondo senza fine. «Ajò’ e cammina, chi mi pari lu babba!»: qui il passaggio dal contesto paesano a quello cittadino, da una cifra linguistica a un’altra, attinge da una Sassari contemporanea dominata dall’infernale caos del traffico. C’è uno di discreta stazza, occhiali da sole inforcati su capelli tirati all’indietro, vistosa maglia bianca, seduto al volante pesante e solenne, così lo vedono quelli della macchina di dietro. Guida con una mano sola, la destra, l’altro braccio piegato ad angolo, gomito sporgente dal finestrino. È questa postura di guida che scatena la furia di quanti sono costretti ad accodarsi. Il Papa evocato dalla battuta in sassarese è più sul versante delle barzellette, qualcuna la ha raccontata pure Jorge Mario Bergoglio diventato Francesco, che altro.
Niente di blasfemo, neppure anticlericalismo. La Sardegna è da quasi due millenni civiltà fortemente cristiana pure se il percorso presenta tratti accidentati e tempi bui: l’eredità di Bonifacio VIII, quello che barattò l’Isola con pisani, genovesi e aragonesi, l’Inquisizione, l’abolizione dei privilegi ecclesiastici dopo l’Unità d’Italia.
Al tempo della Guerra fredda, la contrapposizione negli anni Quaranta e Cinquanta tra blocco occidentale Nato e Unione Sovietica coi suoi stati satelliti, a Bitti c’era Galigheddu, portalettere, uomo forte dei Comitati Civici d dell’Azione Cattolica, grande bevitore. Galigheddu che fu assiduo frequentante di Borgopio, considerava la Cappella Sistina, «opera di Michele Angelo» lui diceva estasiato, una cosa che mai Juanne Moreddu avrebbe potuto capire. «Tue Juanne More’ sei uno da fumata nera.Da ti poto ponner a irmermiccheddare in sa Cappella Sistina, centocinquantamila punti di telefono equivalgono a una sola passata di pennello del sublime Buonarroti!». C’è da dire che il bar di Juanne Moreddu e di suo nipote Giovanni Mannu, Juanne de Deus o papa Giovanni, come Galigheddu uomo dell’ Azione Cattolica, era allora posto telefonico pubblico.
Pronunciata la sentenza, Galigheddu segnava con la croce, a tre dita, i bicchierini d’anice che lui chiamava «ispirituale» con la formula «Benedizione papale cattolica apostolica Paolo Sesto». Poi giù di botto. Il fatto che qualche anno dopo, sempre a Bitti, Papa Giovanni Paolo II, Karol Woytila lo abbiano ribattezzato, sempre senza blasfemia, Vietila, ha le sue motivazioni.
Il finale verte su «Tu es Petrus» senza alcun effetto parodico. Ero ragazzino. Ricordo il 30 giugno del 1963, la sera della incoronazione di Paolo VI. Una folla si era radunata nel salone parrocchiale per seguire in diretta radiofonica e differita tv la cerimonia. Ci fu grande emozione quando si venne a sapere che il Papa rinunciava alla tiara pontificia. L’avrebbe fatta fondere, il ricavato moneta da spendere in opere di bene. Giovanni Battista Montini raccoglieva l’eredità di Papa Giovanni quello vero, indicava cammino per i suoi successori. Come un’attuazione dell’utopia de sa Libra.